Ospedale, quanta ipocrisia. E adesso chiudetelo…

La sollevazione del mondo politico contro la chiusura del reparto di ostetricia e della pediatria del “Riuniti” di Anzio e Nettuno è ipocrita e tardiva. Fa sorridere come gli stessi che – trasversalmente – per anni sono andati a prendere voti, si sono ingraziati i direttori generali e commissari chiedendo ora di spostare un dirigente, ora di nominare un primario, ora di avere una Uos – unità operativa semplice – e ora una Uoc, complessa, per il medico amico, oggi scendano in campo. C’è da chiedersi dove fossero, da destra a sinistra, quelli che non si sono accorti che di 10 ragazzini registrati all’anagrafe di Anzio, solo 3 nascono in ospedale, contro gli 8 di mica tanto tempo fa. Perché accade questo? Semplice, disarmante direi: quel reparto è stato abbandonato a se stesso dalla Asl, non si è “investito” su personale e mezzi, così da fiore all’occhiello è diventato un luogo in cui si viene, si “sverna”, magari si portano i pazienti verso Roma o altre località, perché qui non ci sono prospettive.

I sindaci, poi, quelli che si sono fatti il “selfie” con il direttore generale Mostarda, da una vita in questo ambiente, personaggio più navigato dei politici di casa nostra. Che ci dirà ora? Che sono i dati? O che arriverà qualche macchinario programmato e atteso da tempo e i nostri primi cittadini saranno più contenti? Oggi si indignano, ma ieri – non tanto Coppola da Nettuno che ancora non c’era quanto il nostro De Angelis, attraverso il suo vice Fontana – hanno consentito che si svuotasse anche otorino. Basta leggere il verbale dell’ultima conferenza dei sindaci. Almeno, stavolta, qualcuno c’è andato. Con Bruschini, del quale il nostro stesso sindaco rimangiandosi gli impegni solenni dice di essere la continuità, alle conferenze non si andava ma poi si facevano i “tavoli” e arrivavano le promesse. Inutili. Perché via via si perdevano la senologia, il centro trasfusionale e via discorrendo. E non è certo esente da responsabilità la Regione Lazio, a guida Pd – unico ancora a non esprimersi sulla vicenda a livello locale – che taglia oggi e taglia domani, apri un ospedale pressoché vuoto come quello dei Castelli, ha perso di vista le necessità di un territorio. E non da oggi, perché se passi da 800 a 300 parti non accade in un anno, hai scientemente scelto di non preoccuparti. Come fu, giova ricordarlo, in campagna elettorale. Quando per rispondere alle divisioni interne del Pd l’assessore D’Amato pose “impegni pregressi” e non partecipò a un dibattito al quale aveva dato la sua disponibilità. Gli impegni erano una inaugurazione a Pomezia, dalla quale Anzio dista 20′. Ecco, le logiche manco di partito ma di corrente, questo è.

E pagano i cittadini, pagheranno ulteriormente le donne private prima della senologia, ora di ostretricia e ginecologia che mica tanto, 10 anni fa, presentava un lavoro a livello internazionale sull’incontinenza urinaria ed era tra i reparti migliori del Lazio. Era un’eccellenza, con i vari Gilardi e Ambrogi, poi è finito tutto. E’ stato fatto finire tutto.

Non è un problema di pediatri – che mancano qui come altrove, in provincia di Latina hanno dovuto pagare cifre enormi e farli arrivare da una società di Bologna – è di scelte mancate. Si metterà anche una “pezza”, adesso, ma non basta. Perché la Regione Lazio deve dirci – e non lo ha fatto – cosa vuole fare di questo ospedale. E deve dircelo oltre le pie intenzioni e le belle parole, nei fatti. Devono dircelo – e non lo hanno fatto – sindaci, assessori, consiglieri comunali di lotta e di governo, magari medici in servizio e al tempo stesso impegnati in politica, proprio con l’ospedale bacino elettorale.

Perché i cittadini sono stanchi di essere presi in giro da chi si ricorda ora di fare una “battaglia” che andava combattuta nella conferenza locale sulla sanità e con i consiglieri regionali di riferimento, adesso è tardi. Perché Zingaretti, l’assessore D’Amato, Mostarda e chi c’è stato prima di loro – amo dire banalizzando che Storace ha gestito la sanità con le unità operative dell’unghia incarnita e Marrazzo dell’osso al piede, mentre negli anni precedenti c’è chi come Pasetto fantasticava di nuovi ospedali proprio al confine, ricordate? – devono prendere coraggio e dirci: signori, qui si chiude. Oppure, signori: qui resta un grande pronto soccorso (ma con il personale adeguato, non con le carenze di sempre) e per il resto dovete andare altrove, dove troverete le eccellenze (!?!) oppure vi arrangerete.

Perché se davvero “prendessero in carico” – e non in giro – i cittadini fragili e i malati cronici, dell’ospedale ci sarebbe bisogno solo per le urgenze reali. Ma si deve trovare il coraggio, una volta per tutte, e con altrettanta determinazione queste comunità debbono dimostrare che per un’utenza di 120.000 abitanti che raddoppiano l’estate serve un ospedale non che abbia tutto ma il minimo indispensabile e di livello. Non i medici che ora arriveranno dal “Bambino Gesù” e poi chissà, non i contratti a termine, non chi è qui sperando di andare via o di restare perché “sono voti”. Guardiamola in faccia, la realtà, è così. E o si investe per rilanciare i reparti e servizi che resteranno, sulla “presa in carico”, oppure meglio chiuderlo l’ospedale. E senza “selfie”.

Ospedale e sanità, il modello al quale puntiamo

C’è un punto che va chiarito subito: in materia di programmazione sanitaria i consigli comunali, congiunti o meno, possono dare al sindaco una indicazione e questi ha il dovere di portarla alla conferenza locale sulla sanità e tentare di farla inserire nell’atto aziendale. Funziona così, chi dice altro prende in giro i cittadini. La grande attenzione di questi giorni “elettorali” per le sorti dell’ospedale di Anzio-Nettuno conferma che alla “politica” di casa nostra piace, evidentemente, giocare.

Quello che la Asl – e la Regione Lazio – dovevano decidere per il “Riuniti” è avvenuto nel 2014, con la conferenza dei sindaci che all’unanimità ha approvato la riorganizzazione allora proposta dal direttore generale Fabrizio D’Alba. Ignoro se ci fosse Bruschini, a quella conferenza, o se avesse delegato l’assessore alla sanità Placidi sperando di poter dire poi che lui, il sindaco, “non sapeva“. Ma l’atto pubblicato sul bollettino ufficiale della Regione Lazio nel 2015 è chiarissimo.

Ecco, questo è il passato che speriamo di lasciare alle spalle definitivamente, tra qualche mese.  Per ciò è bene indicare qual è l’idea che abbiamo e che porteremo all’attenzione della Asl se dovesse toccarci l’onore e l’onere di guidare la città. Non gridiamo “l’ospedale chiude…” perché non è così. Neanche uno scriteriato chiuderebbe una struttura che serve un bacino d’utenza come quello di Anzio-Nettuno che raddoppia se non triplica le presenze d’estate. Stiamo assistendo, però, a un progressivo e inaccettabile depotenziamento. Soprattutto se non c’è una risposta adeguata che riguarda la presa in carico dei pazienti – a partire dai cronici – sul territorio.

Questo è il paradigma che dobbiamo rovesciare. Un ospedale come quello di Anzio-Nettuno deve garantire un pronto soccorso efficiente (e la Asl il personale necessario), cardiologia e chirurgia d’urgenza, punto nascita, traumatologia, tutto ciò che riguarda i pazienti “acuti“. Deve essere quello che in gergo è definito uno “spoke” e se ci sono casi gravi deve avere un “hub” di riferimento. E’ già in larga misura così, il modello dei “raggi” e del “mozzo” è realtà non nel Lazio, ma in Italia e nel mondo ormai. Chi difende un singolo posto letto o un reparto con sopra il suo nome quale dirigente e magari fa perorare la sua causa dal politico di turno, fa una battaglia di retroguardia. Questo modello, efficiente e in grado di soddisfare le emergenze è certamente da migliorare, ma non si può tornare indietro.

E poi? C’è la “rete” del territorio, quella che va dai medici di base agli ambulatori specialistici, che “prende in carico” il paziente e non lo costringe ad andare in pronto soccorso con un codice bianco o verde. Qualcosa c’è già, dalla mai abbastanza pubblicizzata “Unità di cure primarie” (più medici di base associati, se non c’è il mio di famiglia  è disponibile un altro) al cosiddetto “Ambufest” nei giorni festivi. Nel primo caso ci sono Comuni che hanno messo a disposizione ambulatori condivisi, nel secondo la Regione ha fatto già dei passi in avanti.

Diverso il discorso di “presa in carico” che un’amministrazione deve fare proprio d’intesa con la Asl: persone fragili, malati cronici, non devono cercare da soli le prestazioni, per esempio, e magari attendere mesi. No, si deve programmare quello che è prevedibile per un diabetico piuttosto che per un malato di Parkinson, tanto per fare degli esempi. Un Comune deve guardare a questo, alla creazione di un modello virtuoso di integrazione socio-sanitaria. Lo fanno in tante realtà, è sicuramente meglio che gridare “ci chiudono l’ospedale“.

Così come un Comune deve essere in prima linea nella prevenzione, dalla promozione dei corretti stili di vita al sostegno alla Asl nelle campagne di screening per i tumori e tutto il resto.

Poi c’è il discorso legato alla riabilitazione, alle residenze sanitarie assistenziali, settori nei quali i privati continuano a guadagnare e il pubblico arranca, quando invece potrebbe rappresentare una parte consistente della risposta.

Ecco, se toccherà a noi non ci scandalizzeremo per un posto letto in meno, se a quello corrisponderanno due servizi in più sul territorio. E quando saranno convocate le conferenze dei sindaci lo diremo a cittadini e operatori, chiedendo un loro parere. Non è mai stato fatto, in passato,  non sembra nelle corde di chi oggi finge di correre ai ripari. Anche per questo  proponiamo #unaltracittà

L’ospedale, il territorio. Un dialogo tra sordi e qualche idea

villalbani

In attesa del prossimo “tavolo” convocato dai Comuni sulle vicende dell’ospedale, è bene sottolineare ancora una volta che il problema non è e non può essere semplicemente il “Riuniti” ma quello che c’è intorno. Perché se prima non capiamo una volta per tutte che i posti letto, da soli, non sono più una risposta ai bisogni di salute, non capiremo mai che l’investimento vero va fatto sul territorio.

Ecco, convocare un “tavolo” come è stato fatto nei giorni scorsi e dimenticare i medici di base – primo filtro per una sanità che funziona a dovere – è stato un errore madornale. Nobile l’intento di salvaguardare l’ospedale, ma ripeto che da solo non è sufficiente. La prossima apertura del Policlinico dei Castelli (spero di sbagliare, ma pare avessero “dimenticato” che servono rete fognaria e fornitura idrica) e l’inserimento di Anzio-Nettuno nella rete dell’infarto (prossimamente dell’Ictus) con la Asl di Latina, impongono ripensamenti seri sul ruolo del “Riuniti” ma prima ancora dell’offerta sul territorio. Finora medici ospedalieri e di base, specialisti ambulatoriali, hanno messo in piedi un dialogo tra sordi. La responsabilità è sempre di altri, ma proviamo a vedere come si è arrivati a questo punto e quali sono le reti da costruire prima che sia troppo tardi. Qualcosa si è mosso, ma non basta ancora.

  1. Il pronto soccorso affollato: è rimasto l’unico presidio certo al quale rivolgersi, non solo ad Anzio-Nettuno, e lo dimostra la situazione in tutto il Lazio. La chiusura di sedi ospedaliere, la mancata riconversione e il mancato avvio di adeguati servizi territoriali fa sì che pazienti cronici o con patologie non tali da giustificare un accesso  vadano nei dipartimenti di emergenza. Risultato? Affollamento, personale sovraccaricato, il 70% circa  di codici bianchi o verdi – per i quali non serviva il pronto soccorso – e casi come quello del paziente oncologico morto al “San Camillo”.
  2. Ucp: le unità di cure primarie o studi  associati, quelli che la Regione ha organizzato ma che i medici di base che hanno aderito (non tutti) preferiscono non pubblicizzare. Dalle 9 alle 19 e dal lunedì al venerdì se non c’è il proprio medico si può andare da un altro, associato, senza ricorrere necessariamente al pronto soccorso. Non sono rese adeguatamente note,  quindi finora sono inutili.
  3. Ambufest: nei fine settimana e nei festivi, sempre dalle 9 alle 19, si può fare ricorso a questo servizio, certamente molto più rapido di un’attesa in pronto soccorso per dolori addominali che magari durano da tre giorni. Anche qui, scarsa pubblicizzazione.
  4. Casa della salute: questa sconosciuta o chi l’ha vista? Quella che la Asl di Latina si affrettò ad aprire a Sezze non aveva collaudo, ad esempio, ma al di là di vicende strutturali è il modello che non funziona o almeno non ancora. La “presa in carico” dei pazienti, la rete sociosanitaria, sono pie intenzioni finora non realizzate. Il modello teorico c’è: se un paziente diabetico – ad esempio – ha bisogno di x esami o visite l’anno, per quale motivo devo farlo girare a fare prescrizioni, prenotazioni e via discorrendo? So chi è, ci penso io. Un orizzonte affascinante ma non ancora concreto. E di quella prevista a Villa Albani non vediamo traccia.
  5. Assistenza domiciliare/Rsa: chiudere i posti letto va bene, è stato  necessario dopo anni di sprechi e grazie alla moderna chirurgia che non richiede più lunghi ricoveri, ma servono alternative. Potenziare l’assistenza domiciliare, autorizzare Rsa che non siano dei “soliti” furbi e paghino gli stipendi, le alternative ci sono ma  non sono mai decollate sul serio. Una casa della salute capace di “prendere in carico” servirebbe anche a questo.
  6. Prevenzione: è la vera grande sfida della sanità e non può che essere fuori dagli ospedali. Su questo i sindaci – e non solo loro – devono battersi con la Asl affinché metta al primo posto attività di screening sempre più vaste, sia per le patologie tumorali sia per i corretti stili di vita.
  7. Liste d’attesa: più servizi aprono, più c’è richiesta, più si allungano i tempi. Sono di per sé un falso problema, soprattutto perché se una prestazione serve con urgenza i medici di base hanno a disposizione un numero dedicato grazie al quale – entro 72 ore – l’esame necessario si esegue. Anche qui, qualcosa non torna. L’adeguatezza prescrittiva, riferibile anche ai farmaci, va necessariamente affrontata, mentre i cittadini educati a chiamare il Recup (o scrivere, richiamano in 24 ore) perché se la prestazione sotto casa è fra sei mesi, spesso ce n’è una a pochi chilometri fra tre giorni. Certo, si deve trovare chi ti accompagna,  ma pure qui se esiste la “presa in carico” si trova pure il modo di far funzionare servizi di trasporto protetto che ormai sono la norma nei posti civili.
  8. Ospedale:  funzionando tutto il resto, si capisce che  diventa un pezzo del sistema, non il centro dello stesso. In pronto soccorso va chi ha un’urgenza vera, viene trattato e stabilizzato, quindi trasferito se necessario. A quel punto date le chirurgie di base e per l’emergenza, lasciato il punto nascita,  si può immaginare un’attività di elezione mirata ovvero una trasformazione in attività di supporto o ambulatoriali. Il percorso che oggi fa l’ortopedia, ad esempio, è già virtuoso: frattura, pronto soccorso, poi ambulatorio per tutto il resto.
  9. Specialistica: l’ospedale generalista non esiste più, per questo a un primo trattamento nelle emergenze devono seguire  risposte adeguate non necessariamente sotto casa. Il principio, e i sindaci farebbero bene a battersi per questo, deve essere quello della cura migliore nel posto più adeguato e non della cura semplicemente in quello più vicino.
  10. Riabilitazione: insieme alla prevenzione è l’altra grande sfida, in parte già vinta proprio a Villa Albani dove arrivano persone dopo il primo trattamento post ictus – ad esempio – o si va a seguito di una operazione all’anca o al femore.

Per fare questo serve una Asl che risponda a principi di corretta gestione prima che politici (negli anni sono state costruite a destra e sinisrta carriere che avrebbero portato voti a forza di “Uos” spesso inutili) servono medici umili, di ogni categoria, e cittadini disposti a capire che se chiude un reparto non crolla il mondo, basta che c’è un servizio alternativo che funziona. Serve una rivoluzione culturale, dunque, che potrebbe cominciare già al prossimo “tavolo“, quando sarà bene affrontare il tema salute,  perché solo ospedale è riduttivo.

L’impegno per l’ospedale, le cose da sapere e quelle da fare…

ospedale

L’impegno del sindaco di Anzio e di quello di Nettuno per l’ospedale è lodevole. L’idea di un tavolo tecnico come quello che si è svolto oggi, pure, ma occorre gettare acqua sul fuoco degli entusiasmi dopo l’incontro odierno e chiarire alcune cose che ai più evidentemente sfuggono.

E’ certamente importante che i medici  – ma c’è chi ignorava ci fosse un incontro, pazienza – indichino le criticità che ci sono in ospedale. Sicuramente i problemi del “Riuniti” – pronto soccorso in testa – vanno affrontati. Ma quella di oggi è una sede di confronto/proposta, perché le decisioni si prendono altrove e i sindaci hanno il dovere non solo di saperlo, ma di informare correttamente i cittadini in tal senso. Bruschini e Casto siedono, di diritto, nella conferenza locale sulla sanità ed è lì che vanno portate le proposte. Il tutto nell’ambito di quello che è il vigente atto aziendale – quello che definisce il “disegno” dei servizi della Asl –  approvato  proprio da quella conferenza. Casto non c’era ancora, Bruschini cosa disse?

E all’annunciato incontro con Mostarda i sindaci, insieme a Cafà e Turano – quest’ultimo nel duplice ruolo di molti colleghi in mezza Italia di medico e consigliere comunale – diranno quali modifiche apportare a quell’atto? (attoaziendaleromah2015bur)  Perché  altrimenti parliamo di aria fritta. Come quando si ricorda la riforma Polverini, quella che per cercare di limitare la voragine dei conti sanitari – che ha radici antichissime, sia chiaro – aveva disegnato improbabili macro aree per cui un’azienda virtuosa – come ad esempio quella di Latina – doveva accollarsi i debiti anche del San Camillo e subiva tagli “orizzontali“. Ma il punto non è questo, bensì quale offerta sanitaria “in base alle reali esigenze dei cittadini di Anzio e Nettuno” hanno in mente i partecipanti al tavolo e i sindaci.

Perché ci sentiamo di dire che va bene salvaguardare l’ospedale, ma non è, non può e non deve essere l’unica risposta ai bisogni di salute della popolazione. A proposito, qualcuno li conosce? Chi scrive poco, i partecipanti al tavolo?

Se non partiamo da quelli – e per grandi linee possiamo immaginare una popolazione che invecchia, l’aumento delle malattie croniche e di quelle dismetaboliche, delle patologie tumorali e dell’apparato cardiocircolatorio – non andiamo da nessuna parte. E’ ormai noto, soprattutto ai medici – sia quelli che erano al tavolo sia gli altri – che l’ospedale serve solo per le emergenze e l’attività di elezione. Il resto si fa, si deve (dovrebbe….)  fare, sul territorio, aggiungendo all’assistenza la cosiddetta medicina di “iniziativa“. Aumentare i posti letto non serve, diverso è mandare più personale nella prima linea del pronto soccorso nei momenti di picco. Che se il territorio funziona a dovere, lo diventano solo quando la popolazione aumenta, in estate. Altrimenti è un cane che si morde la coda.

Se è questo il modello che  il tavolo si prefigge è quello di rispondere ai bisogni dove si trovano, non in ospedale e basta, allora siamo d’accordo. Presa in carico dei pazienti cronici e prevenzione, uniti alle dotazioni che necessariamente l’ospedale deve avere, sono una proposta seria e credibile della quale i sindaci devono farsi carico. E se poi a loro e a chi ha immaginato quel tavolo venisse in mente di confrontarsi anche con i cittadini, sarebbe ancora meglio.

Il bando del porto e l’ospedale, se tutto diventa “vero”

marinamateriale

E’ singolare, non usiamo altri termini, quanto sta accadendo rispetto al porto e all’ospedale di Anzio. Sembrano argomenti distanti tra loro, privi di legami, invece uno ce l’hanno. E’ l’eco mediatica che stanno avendo vicende irreali.

Come altri affermavano “ripeti una bugia cento, mille, un milione di volte e diventa una verità“. Era vero allora, lo è ancora di più oggi nell’epoca dei “personal media“, quando tanti colleghi smaniosi del copia e incolla riportano troppo spesso sui siti ciò che accade sui social network. Peggio, quando alla notizia che pure c’è non segue l’approfondimento.

Prendiamo il porto. E’ una notizia che il sindaco abbia chiesto di fare un bando, affidandosi a uno studio di fiducia, fa notizia che sia nei cassetti da mesi, ma detto questo e al netto delle esternazioni del presidente della Capo d’Anzio Luigi D’Arpino, vogliamo dire quello che è successo?

Il consiglio d’amministrazione del 19 dicembre 2013 ha approvato il nuovo piano finanziario della Capo d’Anzio, quello che prevede l’inversione del crono programma e l’avvio delle fasi 1 e 2 così come riportato sul sito della società. Il sindaco, che rappresenta il 61% della Capo d’Anzio ovvero i cittadini, sa da allora che per uscire dall’angolo ed evitare il fallimento della società era necessario procedere in questo modo. Il consiglio d’amministrazione ha approvato, le assemblee – lui presente – hanno ratificato. Le prime due fasi sono relative alla gestione, la terza alla possibile realizzazione del raddoppio. Nelle 27 pagine del piano c’è tutto, ma il  sindaco ha deciso che si doveva rifare la gara.

Tra il dire e il fare, però, c’è di mezzo il mare… Il bando è annunciato a più riprese, poi si scopre che è arrivato ma qualcosa non “quadra” tra società che ha un input diverso e Comune che evidentemente vorrebbe fare altro. Arrivano le roboanti dichiarazioni di chi dopo anni di silenzi “scopre” il porto, ma nessuno dice che il bando oggi come oggi non è fattibile. Solo tra pubblicazione e gara passa un altro anno, qualcuno vuole spiegarlo? Nel frattempo la società è fallita o è stata ceduta.

In realtà annunciare il bando serve al sindaco, ancora una volta, a tenere rabberciata una maggioranza specializzata ormai in bancarelle e distribuzione di biglietti agli spettacoli estivi. Della serie “Ora facciamo il bando, vedrete, 130 milioni di euro….”  E nessuno dei consiglieri sente di chiedere: “Scusate, ma il piano di razionalizzazione perché non lo abbiamo più fatto?” Era un obbligo, ma che importa… C’è l’associazione di qualche amico da accontentare, il resto può attendere. E il bando diventa uno specchietto per le allodole.

Lo stesso vale per l’ospedale. Il merito al presidio per aver alzato la guardia va riconosciuto, ma nessuno spiega ancora che il “Riuniti” non chiude. Anzi, si continuano a mandare messaggi tra i politici che sono al presidio – e sembrano gli unici duri e puri – e quelli che osano parlare di ospedale.

Ma scusate, l’atto aziendale della Asl qualcuno lo ha letto? E basta un accorpamento di reparti a far chiudere un ospedale? O l’allarme dato da chissà chi? La Asl farebbe bene a tenere una conferenza e a spiegare che si può discutere sui reparti di degenza intesi come “fortino” di qualche primario, ma l’emergenza, il punto nascita con pediatria e l’ oncologia non si toccano. Perché non ha senso e non è scritto da nessuna parte.

Solo che c’è il bando del porto, poi c’è presidio, l’hanno scritto su facebook, l’ha ripreso il sito… E tutto diventa “vero”. Dispiace, ma non è comunicazione.

Il presidio, la passerella, l’ospedale che non chiude e quello del futuro

ospedale

Va dato atto a chi ha organizzato il presidio all’ospedale di Anzio di aver smosso un interesse mai visto prima, salvo che fossimo in campagna elettorale quando si inauguravano anche solo “consegne” di cantieri. Sono arrivati rappresentanti regionali di diversi schieramenti, mentre la Asl ha fatto immediatamente sapere quali sono le misure per il “Riuniti”. Quelle che aveva preannunciato, di fatto, ieri, il presidente del Consiglio regionale Daniele Leodori

Ieri sera c’era gente che arrivava per firmare di continuo, chi scrive ha messo la propria dopo un dialogo con gli organizzatori e comprendendo la genuinità di chi ha immaginato l’iniziativa. Non il messaggio.

La preoccupazione di chi, da giorni, 24 ore su 24, è sotto al gazebo di fronte al pronto soccorso, è infatti quella che a forza di “svuotare” i reparti, accorparli, ridurre le prestazioni, l’ospedale chiuda. Preoccupazione legittima quanto infondata. Sommessamente si ritiene che oltre a non essere scritto sull’atto aziendale, nessuno è così pazzo da eliminare una struttura sanitaria in un bacino d’utenza che conta normalmente oltre 110.000 residenti che d’estate diventano il triplo.

Quello che si deve sollecitare a chiudere è, invece, un ospedale concepito all’antica. La sanità non è più, semplicisticamente, posti letto. Non è e non deve essere il pronto soccorso a dover sopperire alle carenze del territorio. Non è l’ospedale il luogo per “aggirare” le liste d’attesa e fare esami che se fossero realmente urgenti vedrebbero i medici di base chiamare il numero verde a loro riservato. Un ospedale non è più – e non doveva essere prima – un votificio.

Purtroppo è successo. Purtroppo i primari sono stati, in troppe occasioni, dei piccoli feudatari. Oggi, con un ospedale per “intensità di cure” e non più dove conta chi ha più letti, va cambiata una mentalità superata dalla storia. Se ne deve accorgere anche la politica, spiegando – anzitutto ai tanti medici che vi girano intorno – che la medicina del futuro è quella della “prossimità” e non del ricovero, capendo che i tempi dei favori (infermieri in ufficio, medici promossi in improbabili unità operative semplici e fuori dai turni, quindi con maggiori carenze per i reparti) per il ritorno elettorale sono superati. E l’atto aziendale della Asl – votato all’unanimità, quindi anche dal sindaco di Anzio Luciano Bruschini o suo delegato – va in questo senso. Cancellando le unità operative (oltre 200) e non i servizi. Ci auguriamo potenziando definitivamente le “prime linee” dei pronto soccorso.

Certo, una rivoluzione. Come quella che deve fare un certo vetero-sindacalismo, quando suggerisce -e speriamo di sbagliare – i certificati di malattia come alternativa ai trasferimenti nell’ambito della stessa azienda.

Fa riflettere, invece, quanto affermato oggi dal direttore generale Fabrizio D’Alba su chi non accetta contratti di sette mesi (e poi c’è la crisi…) e chi, invece, a scorrimento delle graduatorie, preferisce non accettare Anzio. Troppo comodo. La Regione Lazio, oltre a bloccare il turn over e a concedere deroghe – cinque su otto nella RmH sono state destinate ad Anzio – deve trovare il modo di dire a chi non accetta un posto che può anche dimenticare di lavorare con le Asl del territorio .

E a proposito di atto aziendale, è da sottoscrivere quanto afferma il direttore generale: “Al fine di qualificare le strutture aziendali ed ottimizzare le risorse è stata elaborata, e presentata all’Ente regionale, una dettagliata proposta di riorganizzazione della rete ospedaliera della Asl Roma H, alla quale si rimanda per ogni più completo dettaglio, e per la precisa definizione per ciascun polo, delle attività che saranno presenti nei singoli presidi ospedalieri a seguito del riassetto derivante dal presente Atto, precisando che alle suddette attività non necessariamente debba corrispondere la individuazione di una Unità Operativa complessa o semplice, potendo le stesse essere assicurate anche da parte di Dirigenti con incarico professionale, afferenti a Unità Operative Complesse ubicate presso il medesimo Polo o, in caso di attività su scala aziendale, anche in Polo Ospedaliero diverso. Laddove siano presenti linee di attività e funzioni, quali ad esempio quelle di assistenza e cura di patologie diabetiche, non organizzate in autonome Unità Operative semplici o complesse, queste non devono intendersi soppresse, essendo obiettivo aziendale, all’opposto, il loro specifico rilancio ed addirittura potenziamento con nuovi percorso e metodologie di lavoro come piani, programmi e progetti”.

E’ la teoria. Quando sarà pratica – speriamo presto – avremo degli ospedali moderni e un territorio che risponde, i malati “presi in carico”, i pronto soccorso solo per le emergenze, i posti letto per osservazione, acuti e post acuti e dalla parte degli utenti, non dei primari. 

Allora non ci saranno più, speriamo, i tanti politici che in questi giorni hanno cavalcato l’onda o fatto passerella. Comunque  se è servito a dare risposte che altrimenti non sarebbero arrivate o non avrebbero avuto la stessa eco, il presidio è stato un bene. 

Quando i politici “scoprono” la sanità. Sapendo poco

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Non c’è dubbio che la situazione dell’ospedale di Anzio sia difficile. Non lo è da oggi, ma da tempo, in particolare nella “prima linea” del pronto soccorso. Al personale va un plauso assoluto e incondizionato. E fanno anche bene, i politici di varia estrazione – qualche giorno fa il vice sindaco Zucchini, poi il consigliere regionale Santori – a far sentire la loro voce.

Scoprire” le difficoltà dell’ospedale tanto per farlo, guadagnarsi titoli sui giornali e accontentare i propri “galoppini” locali serve però a poco se non ci sono due azioni conseguenti. Anzi tre.

La prima è la conoscenza. La macchina sanitaria è una delle più complesse da mandare avanti ed è chiamata a fornire il bene più prezioso: la salute. E’ una macchina che paga, oggi, quanto è stato fatto nel corso degli anni dalla politica con sprechi e clientele. Da chi “imbucava” un infermiere in ufficio o da chi faceva “promuovere” primario di una singolare unità operativa – meglio semplice, i gradi erano più facili da dare – l’amico/elettore, con seguito di consensi. Da chi imponeva il presidente del comitato di gestione e poi il direttore sanitario, a chi non controllava i costi per cui la stessa siringa costava in un’azienda sanitaria 10 e in un’altra 2.

Oggi paghiamo nei conti della Regione ancora i “leasing back” di Storace che per fronteggiare la situazione di disastro finanziario ha venduto le strutture, paghiamo le “macro aree” scellerate della Polverini (i debiti di Roma spalmati sulle Asl del Lazio), le scelte mancate di Badaloni prima e Marrazzo poi. Perché con la sanità si vincono o perdono le elezioni, questo è il problema…. E il medico x, il quale magari ha pagato un intero tavolo alla cena elettorale di autofinanziamento del politico y, farà carriera….

Conoscenza è anche sapere che un sindaco può incidere sulle scelte nell’apposita conferenza locale. Cosa ha fatto Bruschini, per esempio, quando c’era da approvare l’atto aziendale della Roma H? Cosa ha chiesto per il territorio?

La seconda è trovare soluzioni possibili. La “coperta” della sanità è corta per i numerosi errori commessi in passato, ma certo è singolare che un infermiere, nella stessa azienda, non possa essere spostato da Nettuno ad Anzio o da Ariccia ad Albano per “tamponare” un’emergenza. Urlare con Zingaretti e fare interrogazioni  va bene, ma chiedere al direttore generale Fabrizio D’Alba di sedersi con i primi cittadini del comprensorio e trovare le soluzioni possibili per tempo non è una bestemmia. Magari facendo capire a chi si trova nel centro prelievi o nel reparto della città X che non può stare a scaldare la sedia se d’estate l’attività si dimezza. Vanno bene le interrogazioni, delle quali possiamo anticipare anche le risposte (piano di rientro, impegno a…, investimenti per…) ma è il caso di trovare le soluzioni pratiche. Insieme anche alle organizzazioni sindacali che qualche cessione dovranno pur farla, perché pazienza chi deve fare un viaggio ma un infermiere o un medico potranno anche attraversare un corridoio o, se proprio necessario, cambiare palazzo quando serve.

Invece ho registrato, in passato, festanti comunicati di politici per aver tenuto aperto un laboratorio analisi o ho dovuto difendermi da chi mi diceva “vuoi il male dell’ospedale x” (300 parti l’anno o nessun paziente ma turni h24 di chirurgia) dicendo “tu vuoi il bene di chi non vuole spostarsi, non di chi ha bisogno dell’ospedale“.

La terza è prendersi la responsabilità di dire la verità e immaginare qualcosa di diverso. L’ospedale sotto casa per tutti non serve, anzi è dannoso. Se è una cosa grave devi avere la certezza di essere portato, magari in elicottero, dove possano curarti bene. I posti letto sono un falso problema, perché dovrebbero essere l’estrema necessità ma spesso sono chiamati a sostituire ciò che non viene fatto sul territorio. L’idea delle “Case della salute” è buona, ma finora sono scatole vuote, quando non crollano come a Sezze dopo essere state aperte senza autorizzazione all’esercizio.

Le Unità di cure primarie (il medico di base aperto 12 ore, se non il proprio quello di uno studio associato) vanno fatte conoscere e incentivate, i pronto soccorso sono affollati di casi inutili (codici bianchi e verdi) e le lunghe attese sono dovute al fatto che il territorio non risponde, i malati cronici vanno presi in carico davvero e non con dichiarazioni d’intenti o comunicati che tali restano. La chiamano “medicina di prossimità” quelli che ne sanno più di chi scrive. E c’è un’altra grande responsabilità: tagliare i rami secchi, quelli veri. Un esempio su tutti. In provincia di Latina ci sono due emodinamiche. Sono indispensabili in caso di infarto, un intervento può salvare la vita ma… I dati statistici parlano di una emodinamica ogni 5-600.000 abitanti, quanti ne ha la provincia pontina. E’ evidente che uno dei servizi è di troppo, è stato una esigenza “politica” e ora guai a chi lo tocca.

A Roma, 3 milioni di residenti, mettiamoci turisti e altre presenze durante l’anno 5 milioni, le emodinamiche dovrebbero essere 10. Ce ne sono 29. E se togli la convenzione a uno, ti minaccia di licenziare il personale, se la togli a un altro arriva il potente di turno e quindi non si tocca, se pensi a un altro ancora è un ente religioso e che sei matto?

E quanti casi-emodinamica ci sono? E perché non immaginare che se sono aziende, le Asl funzioni come tali e non con l’elefantiaca burocrazia pubblica? Chiedessero questo i consiglieri regionali, di maggioranza e opposizione, si impegnassero sin d’ora a non “raccomandare” nessuno per uno spostamento in ufficio o qualche improbabile unità operativa, dicessero ai cittadini qual è la situazione e si impegnassero per la sanità sul territorio. Solo così possiamo uscirne, il resto è propaganda.

Centro alta diagnostica come il porto: la peggiore burocrazia

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Ma sì, ammettiamo che la Fondazione Roma si voglia buttare avanti e dica “ce ne andiamo” per mettere la Regione alle strette. Se pure fosse? Il rischio che il centro alta diagnostica non si faccia più a Latina o si faccia pure nel capoluogo ma non al “Goretti” è il trionfo della peggiore burocrazia. Sembra di assistere alla tiritera del porto di Anzio – è un caso che anche in questo caso governi il centro-sinistra? – quando ci si celava dietro a “procedure” inesistenti per dire di no.
Qui è ancora peggio, in Regione c’è chi ha provato in extremis a bloccare il trasloco del 118, al posto del quale sarebbe andato il centro, e non c’è riuscito perché il trasferimento era già avvenuto. C’è chi ha detto “tanto a Latina non si farà mai”. C’è chi sta nascondendo una lettera spedita alla Asl a dicembre 2013 con le motivazioni che non consentirebbero di aprire il centro. Sì, nascondendo. L’ha chiesta invano il consigliere regionale Pino Simeone. Chi scrive ha attivato una richiesta di accesso agli atti. Nulla.
Perché non si può aprire il centro dopo protocolli firmati e delibere vigenti? Nessuno lo dice ufficialmente. Sembra che ci sarebbero intoppi sulla proprietà dei macchinari, sull’uso “privato” di un bene pubblico (la sede dell’ex 118) nonostante le prestazioni gratis garantite alla Asl, la Fondazione “guadagnerebbe” – reinvestendo sul centro, mica intascando i soldi… – e chi più ne ha ne metta.
Qui la Fondazione, che certo ci “prova” e vuole mettere la Regione alle strette, di sicuro investe. Fior di milioni di euro, per un macchinario unico in Italia, destinato a richiamare studiosi da mezzo mondo. Questo non conta per i burocrati, ancora meno per i politici a quanto pare. Quelli che promettono da oltre dieci anni la terapia intensiva neonatale, ad esempio, mentre i bambini con problemi continuano a essere a rischio. Quelli che con il Dea di II livello giocano a carta vince carta perde: Marrazzo lo inserisce ma non lo crea, la Polverini lo toglie, Zingaretti lo reinserisce ma formalmente c’è ancora da aspettare.
Certo nel caso dell’alta diagnostica, il macchinario resterebbe privato e c’è da dire meno male. Perché basta fare quattro passi al “Goretti” per vedere in che condizioni sono quelli pubblici e cosa occorre fare per sostituirli. A cominciare – i burocrati conoscono – dall’acceleratore lineare. Indispensabile per la radioterapia, la cura dei tumori. Chi impedì la gara per il nuovo? Basta chiedere in Regione, negli uffici lo sanno bene. Si sono persi tra spesa corrente e spesa in conto capitale quando la Asl propose di pagarlo con fondi di bilancio. Lo stiamo ancora aspettando e al primo guasto dell’unico funzionante partiranno i viaggi della speranza per Roma.
Il macchinario del centro per alta diagnostica non avrebbe di questi problemi, pagherebbe tutto la fondazione Roma. Ma se una cosa decidi di non farla fare, il modo in Italia lo trovi. La Regione, attraverso pareri “a soggetto“, è stata capace di rinviare finché ha potuto l’approvazione del nuovo porto di Anzio decretandone il fallimento quando è stato autorizzato in piena crisi della nautica. Adesso in Regione c’è chi – per motivi ufficialmente sconosciuti – intende bloccare a Latina un investimento, la possibilità di fare ricerca, la diagnostica senza eguali per i tumori.

Verranno a dirci che c’è il “piano di rientro“, la ricetta che ormai usano per ogni “no“. Un’ultima curiosità: la Regione che ha aperto senza “autorizzazione all’esercizio” la casa della salute di Sezze è la stessa che sta impedendo il centro di alta diagnostica. Complimenti!

Ospedale, il sindaco ha ragione. D’Alba faccia il manager

Ospedale, il sindaco ha ragione. D’Alba faccia il manager

 

Il sindaco di Anzio, Luciano Bruschini, ha ragione. L’ospedale è al collasso, mentre nella stessa Asl ci sono strutture sanitarie a pieno organico. Purtroppo quando si dice che la politica deve uscire dalla sanità non si va oltre i solenni impegni. Speriamo che il direttore generale della Asl, Fabrizio D’Alba – che nell’ambiente ci vive da quando è bambino, dato l’incarico di prestigio che la mamma ha avuto in Regione – dia un segnale. Quello di fare il manager e non ascoltare amministratori, politici e sindacati che chiedono di non spostare personale dai Castelli ad Anzio o dove serve. Perché, purtroppo, funziona così. A Priverno, anni fa, chiuso il reparto di ostetricia e ginecologia (300 parti l’anno, sic…), si pensava che le sei ostretriche sarebbero arrivate a risolvere i problemi di Latina (2.000 parti l’anno) ma solo una è in servizio. Le altre cinque? Due sono diventate sindacaliste, una è in ufficio grazie a qualche “sponsorizzazione”, due hanno scoperto di avere diritto alla legge 104 per assistere familiari disabili. Ecco, questa è l’Italia. D’Alba è giovane e si faccia valere perché il sindaco ha ragione ed essere presi in giro sarebbe troppo.