“Prendersi cura”, lo straordinario esempio di Gianna

C’è un concetto che in sanità ormai è di uso comune, quello del “prendersi cura”. Se vogliamo “farsi carico”, più ancora essere empatici. Sono tutte caratteristiche che Gianna Sangiorgi aveva e che nella sua vita ha messo a servizio degli altri. A partire dai più deboli.

Lo ha fatto quando certi termini erano ben lontani dall’uso comune tra chi si occupa di salute. Lo ha fatto mettendosi a disposizione, dalla “prima linea” del Tribunale per i diritti del malato. Lo aveva aperto e ne è stata l’anima fino all’ultimo, con una capacità di comprendere le ragioni di chi denunciava e di andare a sollecitare delle soluzioni che sembrava innata.

Difficilmente la sentivi parlare di “malasanità”, ma guai a non dar retta alle sue segnalazioni. Ne sanno qualcosa al vertice del “Goretti” e a quello della Asl di Latina. Ne so qualcosa io, se tardavo a scrivere una sua segnalazione. Non mollava, fino a quando arrivava una risposta. Fino a quando non le spiegavano, ad esempio, il motivo perché la Tac andava in pronto soccorso anziché in radiologia o la nuova risonanza era diversa da quella che si attendeva. Finché non pubblicavo ciò che mi aveva raccontato, del quale potevo fidarmi ciecamente.

“Ah, oggi passi perché non hai trovato niente…” diceva con un sorriso se mi affacciavo nel suo ufficio (che fatica per ottenerlo) al piano terra dell’ospedale. E lì mi raccontava a cosa stava lavorando, al rapporto in preparazione di Cittadinanzattiva, ai primi dati che emergevano sapendo che poteva fidarsi anche lei, non li avrei “bruciati”. Aveva portato il suo metodo e la sua testardaggine anche nell’esperienza di Latina bene comune.

Aveva in qualche modo collaborato con i miei libri, fornendo spunti interessanti (grazie ancora, davvero), non era potuta venire alla presentazione dell’ultimo sulle aggressioni ai medici ed eravamo rimasti per un’altra occasione. Quando l’1 febbraio le avevo fatto gli auguri per i suoi 75 anni mi aveva “cazziato” perché andando via da Frosinone non le avevo ancora dato il contatto che le serviva per un altro dei suoi dossier sugli ospedali.

Lo avevo fatto, scusandomi, e ci eravamo fatti ancora una risata. “Aho – mi aveva detto – ora vai a riposarti al Comune” e io avevo risposto: “Basta che non trovo chi è capace a fare contestazioni come te”. Purtroppo è stata l’ultima tra di noi ed è un gran peccato.

La sanità pontina (e non solo) perde una colonna portante, i malati e i loro familiari ancora di più. Perde Gianna, un esempio straordinario di sapersi “prendere cura”.

Vincenzo D’Amico, Gianluca Atlante e un libro che commuove

Il libro che il fraterno collega Gianluca Atlante ha dedicato a Vincenzo D’Amico è l’omaggio a un campione, un tuffo nella lazialità, il riassunto di un calcio che abbiamo amato e non c’è più.

È prima ancora il tributo a un figlio di Latina – mia città adottiva per una trentina d’anni – che non aveva dimenticato le sue origini. L’ho letto con colpevole ritardo e qualche lacrima che da laziale ci sta tutta.

Nelle pagine iniziali c’è il rapporto con il “Nicolosi”, un quartiere che ha rappresentato e rappresenta l’anima popolare del capoluogo pontino, poi la perfetta descrizione della zona tra via Monti e il tennis club ai “Giardinetti” o cos’era il Cos che come tale  – purtroppo – non esiste più.
Poi vengono le storie e i ricordi, di chi ha giocato con “Vincenzino” o l’ha avuto avversario, di chi ha vissuto l’esperienza in campo o in tv insieme a lui.

Poi le partite importanti nelle quali si caricò la Lazio sulle spalle (a quella dei 3 gol al Varese c’ero),  tanti aneddoti e passaggi che commuovono. Sono certo non solo i laziali.
A me resta un incontro al Mocafè,  in corso Matteotti,  la sua disponibilità, la battuta pronta. Quando gli dissero “è un giornalista del Messaggero“, io mi affrettai a rispondere “ma ti sto salutando come laziale” e lui “a mbè…” con un sorriso grande così. Questo era Vincenzo D’Amico, bandiera della Lazio. Lo sanno e per questo lo rispettano anche gli avversari.

Ps: Latina e la Lazio finora hanno fatto poco per ricordarlo. Il libro di Gianluca (bravo!) è un monito affinché la sua città e la squadra per cui ha dato tutto, si sveglino. 

Addio a Fiore De Santis, indimenticabile quel “duetto”

Mi giunge la triste notizia della morte di Fiore De Santis, imprenditore nel settore delle pompe funebri capace di associare diverse agenzie della provincia sotto l’egida della Ifal, consigliere comunale e assessore per lungo tempo a Sermoneta, persona sempre disposta al dialogo con i giornalisti e soprattutto a fornire qualche “dritta”.

Quando volevo fare questo mestiere, all’università tenne una lezione Giampaolo Pansa che ci disse che dovevamo conoscere un direttore di banca, saperci muovere in tribunale e alla camera di commercio. Aveva perfettamente ragione, ma aveva dimenticato che un cronista deve avere rapporti anche con chi ha agenzie funebri. Sono loro che intervengono sempre, dall’incidente al decesso del personaggio noto, fino all’omicidio.

Con lui, sin dai tempi di “Latina Oggi”, si era instaurato un rapporto di reciproca fiducia. Se accadeva qualcosa e non ti vedeva arrivare, chiamava per dirti che fine avessi fatto. Quando c’eri, bastava uno sguardo per capirsi e dirgli, senza parlare “se c’è una foto della vittima, mi raccomando….” E se arrivavi in una casa – i social non c’erano e le suole andavano (come andrebbero) “consumate” – di fronte a qualche titubanza dei familiari era lui a mediare. E poi qualche dritta su come fosse andata l’autopsia, quella sulla fissazione delle esequie…. Ma anche la disponibilità, a Sermoneta, per qualsiasi cosa ti servisse. Una sera, se non ricordo male era il 2007, ospitavamo al castello la cena del congresso dell’Unione nazionale cronisti. La Compagnia dei Lepini aveva organizzato, insieme al Comune, l’accoglienza ma non avevamo fatto i conti con qualche anziano partecipante ai lavori. “Fiore, ma come lo aiutiamo a salire a questo? Come fate con i funerali?” E lui, serafico: “Vado a prendere una cassa e lo porto sopra...” Per fortuna, alla fine, non servì.

Il massimo fu in occasione della tragedia che sconvolse la città, ma l’Italia intera, con un’esplosione nella caserma dei carabinieri di Latina. C’erano i media di tutto il Paese e si svolgeva l’autopsia, i colleghi arrivati da altrove non conoscono la camera mortuaria dell’ospedale “Santa Maria Goretti” ed erano giustamente tutti piazzati dal lato in cui sarebbe uscito il medico legale. Io ero lì per l’Ansa e il Messaggero e vidi spuntare Fiore dalla parte opposta, quella per intenderci dove si possono visitare le salme. Mi avvicinai, chiesi del funerale e di altre curiosità, mi misi al telefono per dettare all’Ansa la fissazione delle esequie per il giorno dopo. Fiore si fermò a fumare una sigaretta poco distante. Un collega con accento del nord arrivò trafelato, mi chiese chi fosse e io “Il sostituto procuratore Fiore De Santis“. Lui capì al volo e quando il giornalista si avvicinò, rispose: “Ho detto tutto a Del Giaccio” e se ne andò, voltando le spalle. Fummo capaci, in una circostanza tragica, di inscenare un “duetto” che mise in evidenza quella reciproca fiducia e fece sottintendere a Fiore – verso quel collega – “non ti conosco, non so chi sei“. E’ anche questo il giornalismo locale, di “prossimità” come dicono quelli che hanno studiato. Ne riparlammo spesso, sempre scherzandoci sopra, di quella vicenda. Era anche un rapporto diverso e amichevole tra fonte e giornalista, senza tutti gli “orpelli” di chi oggi vuole autorizzare a dare notizie, come l’ex ministra Cartabia, procuratori timorosi, forze dell’ordine che aspettano il via e temono chissà cosa.

Non lo vedevo da tempo, una volta incontrandolo a Sermoneta capii che non stava bene perché fece fatica a riconoscermi. Chiesi ai “suoi” della Ifal – che abbraccio forte, a partire dal figlio – cosa fosse successo ma confermarono solo che aveva un problema. Restano tutte le volte che mi ha dato una mano, quella sera a Sermoneta (ma anche altre, davanti alla polenta prima della sagra), quell’indimenticabile “duetto”. Non sarà stato un magistrato, come io l’ho definito quel giorno, ma una persona importante per il mio lavoro. E glie ne sarò sempre grato. Ciao Fiore!

Ciao Marco, quanti “scazzi” e che bella amicizia…

Marco Sacchi (foto Idoctors.it)

“Spiacere è il mio piacere”, canta in “Cirano” Francesco Guccini e a lui di andare a genio a tutti importava poco. Marco Sacchi, dirigente della chirurgia dell’ospedale “Santa Maria Goretti” di Latina, ha lasciato questa terra e io sono triste. Lo conobbi nel ’99, insieme all’inseparabile amico ortopedico Gianluca Tamburella, anche lui scomparso troppo presto, appena arrivato in un ospedale che in pratica non aveva più primari. Era allo sbando e compito di Marco, come degli altri, era fare in modo che il “Goretti” tornasse ad avere una reputazione. Frequentavo, come ho fatto fino al Covid, l’ospedale per lavoro e l’impatto fu dirompente: “Sto un po’ qua e poi torno a Roma, ho girato il mondo (era andato persino in Vietnam a specializzarsi sul fegato), sistemo e ciao”. Della serie, questa la prima impressione: qua capite poco, ci penso io e poi vi saluto. Invece non se n’è più andato, portando la chirurgia di Latina, in particolare quella contro i tumori, a livelli eccellenti. E diventando il primo paladino del “Goretti”. “Vedi – mi disse una volta – quando uno ha un tumore c’è sempre qualche familiare che ha amici a Milano o Parigi, quello comincia a fare il giro del mondo, non ci considerano mica perché non siamo capaci, ma perché non vogliono bene al loro ospedale. Sono gli stessi che, invece, se hanno un infarto o arrivano per un’appendice strozzata o un ictus e vengono salvati, ci lodano”. Diciamo la verità, Latina gli stava un po’ “stretta” ma qui aveva riunito, al “D’Annunzio”, il gotha della chirurgia nazionale, invitandomi anche a moderare uno degli incontri. Nel nostro rapporto c’erano alti e bassi, lo cercavo se c’era un fatto di cronaca “Marco ma sai che è successo?” Sorrideva: “Aho, non l’hai ancora capito. Non voglio sapere che è successo ma come sta il paziente”. E ti diceva com’era andato l’intervento e quello che comunque, in qualche modo, aveva saputo. Nel rapporto fiduciario con una fonte divenuta amica. Sapeva che poteva fidarsi.

Un professionista da chiamare, anche di notte, se c’era bisogno. E che, al contrario di tanti saccenti che girano oggi nella sanità laziale e anche al “Goretti”, se non rispondeva richiamava sempre. Se avevi un dubbio su una vicenda potevi chiedere un parere (“ma non virgolettare, serve l’autorizzazione, sai che palle poi…”) oppure “Ma è vero che le sale operatorie non potete usarle perché ci sono appoggi dalla rianimazione?” “E che te l’ho detto io?”. Era il modo per andare alla fonte e avere conferma, perché se fai questo mestiere funziona così. Rapporto che qualche volta s’è incrinato, come quando riservò una stanza alla signora Finestra, moglie del sindaco, dopo un incidente e scrissi che c’erano state polemiche. “Anche a teatro c’è un posto riservato” disse al telefono mandandomi a quel paese. La prendemmo male entrambi, poi Gianluca Tamburella ci portò a mangiare una pizza da Gennaro ed era come se non ci fossimo mai bisticciati. Tenni segreto, e oggi mi perdonerà se lo racconto, che si ruppe un piede perché gli era caduto sopra il tavolo operatorio “non lo scrivere sennò è un casino”. Sai che roba, “audit” clinici, ispezioni, chi più ne ha ne metta, invece con tutto il gesso andava in sala operatoria. Perché quella era casa sua. Lì interveniva sui tumori, lì salvava vite (“ma scrivi solo se mi indagano o se qualcuno muore”, era la sua battuta preferita pur sapendo che seguivo anche altro) in quell’ospedale si arrabbiava perché l’attività programmabile (di “elezione”, appunto) era ferma. Era arrivato apposta, per “attrarre”, ridurre la mobilità passiva, restituire fiducia ai cittadini e invece ultimamente era costretto tra urgenze e tumori. “Io opero anche ad agosto – ribadiva – almeno abbiamo un po’ di margine di manovra in più”. Era arrivato per stare poco, così raccontava, è rimasto praticamente 25 anni ma ultimamente la malattia lo aveva tenuto lontano. Ci eravamo sentiti dopo il Covid, mi aveva fatto i complimenti per il trasferimento a Frosinone e la nomina a capo servizio (“mi raccomando, non fa danni eh….”), a Natale se non si poteva brindare in chirurgia, il 24, c’era sempre un suo biglietto o messaggio. “Spiacere è il mio piacere”, torno alla frase iniziale, e con i vertici Asl che dal ’99 in poi si sono succeduti è stato sempre un rapporto di amore-odio. Che battaglia, poi, quando arrivò “La Sapienza” e lui guidò i medici ospedalieri in un’assemblea al “Porfiri” per dire “no, grazie”. Pure su questo, però, non eravamo d’accordo e allora appena lui aveva una pubblicazione scientifica della sua équipe mi chiamava e diceva “l’abbiamo fatta noi, mica l’università”. Oggi, senza tema di smentita, dico che la sanità pubblica perde un pezzo importante.

Grazie per le volte che mi è servito un aiuto e ci sei stato, pazienza se la promessa di portarmi una volta in sala operatoria – a vedere come funziona – è rimasta tale. Ci siamo “scazzati” spesso, ma è quello che succede tra amici e persone che si stimano. Sono triste, caro Marco, lo ripeto. Tra noi lo “spiacere” durava poco ed è stata una bella amicizia.

Franco e quella delibera “galeotta”. Ciao, caro amico mio

Diventammo amici quando scrissi, per Latina Oggi, che era stato necessario fare una delibera per restituire 5 o 6000 lire a una mamma che aveva pagato oltre il dovuto una prestazione per il figlio. Da alcuni mesi le 6 ex USL pontine erano state unite in una sola azienda e Franco Brugnola ne era diventato direttore amministrativo. Al vertice c’era Roberto Malucelli, direttore sanitario Francesco Perretta. Sì, come oggi i posti si dividevano, poco è cambiato tra prima e seconda repubblica. Però si guardava alla qualità. Ho seguito la Asl di Latina dalla sua nascita e devo dire che di qualità, successivamente, ne ho vista poca. Ma non c’entra, adesso, perché mi piace ricordare Franco uomo e professionista, appassionato di numeri e informatica, conoscitore della macchina amministrativa pubblica come pochi, sempre “contro” chiunque governasse se c’era da difendere un lembo di sanità pubblica e onesto fino al midollo.
Quella volta ci incontrammo all’ingresso di piazza Celli, io ero lì come sempre a spulciare l’albo pretorio e lui “ma che vai a trovare, vieni con me“. Andammo nel suo ufficio, il quadro con lo spettacolo teatrale del fratello che non c’era più lo accompagnava sempre. Mi disse che avevo fatto bene a scrivere e che era vero, fare una delibera era più costo del rimborso, ma occorreva cambiare le regole e lui lo stava facendo. Nacque così il nostro rapporto e da lì non ci siamo più persi di vista. “Guarda che è bravo” – mi disse frettolosamente e con i suoi modi rudi Luciano Mingiacchi con il quale ne parlai e che lo conosceva bene. Sapeva di non sbagliare. Andò a Formia come direttore generale del Comune, alla Roma 6 commissario e poi direttore amministrativo, in Toscana a seguito di Malucelli che veniva, è vero, dal mondo delle Coop ma nel frattempo aveva imparato a conoscere la sanità. Poi Franco andò all’istituto zooprofilattico. Dalla pensione aveva iniziato a scrivere libri e io a presentarli sempre con piacere. Una volta anche ad Anzio, con una bel confronto con il sindaco Luciano Bruschini. Venivano entrambi dalla scuola della prima repubblica ed era un valore aggiunto. L’esperienza di candidato sindaco a Sabaudia – la sua città di adozione e scelta per la vita – non era piaciuta ai cittadini che votarono altri. Come accadde a chi scrive qualche anno dopo. E Franco c’era: “Non potrò fare il dirigente né ho voglia di fare l’assessore, ma se vinci una mano te la do”. Rileggere oggi quello che disse all’incontro in campagna elettorale è ancora istruttivo. Anzio, però. guardava altrove.

E’ la democrazia, ma che fosse “malata” di qualche vicinanza alla malavita lo temevamo già. Eravamo d’accordo che in caso di vittoria sarebbe venuto per un paio di giorni in “ritiro” con noi a spiegarci come funziona la macchina amministrativa, cos’è il “Sindaco di tutti” ma poi ci avrebbe fatto comodo anche il suo “Manuale per un consigliere d’opposizione”. Lo cercammo per i primi bilanci, poi ogni volta che c’era un dubbio. Della malattia parlava poco ma quando poteva lodava il personale del “Goretti”, intanto preparava “libri bianchi” sulla sanità, voleva che il cinema Augustus restasse patrimonio di Sabaudia ed era in prima fila nella battaglia per i “Pat”, i punti di assistenza territoriale. Lì non è che fossimo così d’accordo, però il principio era giusto: se togli un servizio (non di vitale importanza, ripetevo io) devi darne un altro adeguato. Appena saputo che sarei andato a Frosinone mi fece i complimenti e chiese di parlare del suo libro “bianco”, della carenza di posti per mille abitanti, dello squilibrio verso il privato, dei costi elevati per alcuni servizi. Dovevamo presentarlo insieme, ad Alatri, ma un suo malessere non lo ha consentito. Oggi che Franco se n’è andato dico che dovremo farlo lo stesso. Insieme all’amata moglie che stringo forte in questo doloroso momento.

Per ricordare un servitore dello Stato, un manager pubblico di assoluto livello. Un amico perduto. Ciao!

“Fare” il giornale, grazie Gigi

Sapevamo e abbiamo taciuto. Anche a noi stessi. Conoscevamo la tua riservatezza, caro Gigi, così quando ci incontravamo tra colleghi nessuno ne accennava. E dire che in più di qualche occasione ci era capitato di parlare di quei tempi, di quella straordinaria palestra che è stata “Latina Oggi”. Da ultimo quando è mancato Giuseppe Ciarrapico. Ha ragione uno dei tanti che ti ha ricordato sui social, il “romano” Claudio Barnini che nella sua esperienza con il Ciarra ha almeno vissuto spensierato gli anni con noi a Latina: speriamo siate in posti diversi lassù…

Perché Luigi Cardarelli, lo ricordo qualche giorno dopo la triste notizia della sua scomparsa, non meritava quell’editore così ingombrante in vita, meno ancora nel riposo eterno.

Lo so, a Gigi non sarebbe piaciuto nemmeno il clamore mediatico che ha avuto il suo passaggio, sarebbe stato schivo anche in quel momento se avesse potuto. E quando ci avvicinavamo alla cattedrale di San Marco (che “battaglie” con l’allora vescovo Pecile….) per l’estremo saluto, con Rita Cammarone ci siamo detti che in fondo in fondo si era scelto anche il clima.

Per avere meno gente, forse, o magari tenere lontano qualche ipocrita che invece c’era… Quelli che non varcavano la soglia di Corso della Repubblica, non provavano nemmeno a offrirti un caffè (freddo e amaro, d’estate) perché tanto avresti scritto ciò che volevi. Quelli che da un certo punto in poi hanno deciso che il loro riferimento era il Ciarra. Il quale inizialmente fece solo scena, poi entrò prepotentemente nelle scelte. L’inizio della fine, 1999 se non ricordo male.

Lo sapevi, ma non ammettesti (e quando mai…) che in fondo in fondo io e Lidano Grassucci avevamo ragione ad andar via. La situazione era diventata insopportabile, quando squillava il telefono nel “gabbiotto” sudavamo freddo perché avremmo dovuto rivedere un’apertura o ospitare uno sgrammaticato editoriale del presidente. E che pena quei fogli con i quali stabiliva di chi scrivere e chi non o i fantomatici ordini di servizio.

Tu, Gigi, hai tenuto botta finché hai potuto, hai provato a salvaguardare la “sacralità” che ci avevi tramandato della redazione, di questo straordinario lavoro, della necessità di fare la guardia “a tutti i Palazzi, comunque intesi”, come scrivesti sull’editoriale (attualissimo, 27 anni dopo) del primo numero del “Granchio”.

Ti chiesi la cortesia di scriverlo dopo averti chiesto l’autorizzazione a collaborare a quella intrapresa. Mi mettesti di “corta” ogni mercoledì, giorno di chiusura del “Granchio” ed era il tuo modo per dire: vai e fai. Dicono che mi consideravi un po’ come tuo “erede”, cosa alla quale non ho mai creduto. Paola un giorno a pranzo a casa tua mi disse che ti rivedevi in me da giovane, forse lo pensavi davvero, per questo vivesti come un “tradimento” il mio addio al giornale. Ecco, non ne abbiamo mai parlato, ce lo siamo sempre tenuti per noi, oggi vorrei dirti ancora e semplicemente: grazie. Come quella sera che chiusi dietro le mie spalle la porta di Corso della Repubblica. Grazie per la fiducia che non hai dato a me – affidandomi la responsabilità a un certo punto di sostituirti al giornale e all’Ansa – bensì a tutti i colleghi cresciuti in quella palestra. Ci ha fatto “fare” i giornalisti, per questo maestro è un termine riduttivo e che non avresti apprezzato.

Eri più felice di me quando il Messaggero stava per portarmi a Roma, cosa che a te il Tempo aveva sempre negato, rispondesti “lo sapevo” e rimanesti deluso quando non se ne fece più nulla. Meglio così, Gigi, dammi retta, E meglio che la mia “carriera” politica – che non hai condiviso, anzi… – sia finita presto. Anche di questo non abbiamo mai parlato, era il modo non solo per “controllare” il Palazzo ma rivoluzionarlo. Lo so, ai giornalisti compete altro, ma conosci la mia viscerale passione per Anzio, un po’ come l’idea “Europea” che avevi di Latina citando Muzio e Corona.

Schivo sì, riservato pure, ma quel “grazie” dopo il grande lavoro fatto sul piano regolatore di Cervellati, detto a ciascuno di noi, resta indelebile nella memoria. Perché, lo sai, lo ha ricordato Francesco leggendo in Chiesa, noi il giornale lo abbiamo “fatto” finché abbiamo potuto. Vallo a spiegare, per esempio, all’intellighenzia di Latina, della città non a caso “incompiuta” come l’hai descritta nel tuo ultimo libro, che quella sera della vittoria di Finestra noi avevamo pronta una analoga prima pagina con il titolo Di Resta. Vallo a spiegare che con i primi mezzi informatici che avevamo e grazie al compianto Massimo Santarelli ingrandimmo il corpo dei caratteri e perdemmo un pomeriggio. Perché non c’era la rapidità di oggi, non c’erano gli strumenti, i social nemmeno immaginavamo cosa fossero, però il giornale lo “facevamo” e chiunque avesse vinto il ballottaggio dovevamo essere pronti. E vallo a spiegare che quando ancora c’erano i menabò avevi una precisione maniacale con quel “tratto pen” passato sui fogli, tenevi alla grafica come a una notizia ma questa doveva venire sempre prima di sommari, sommarietti e arzigogoli vari. Perché – quante volte me la sono rivenduta – i giornali “si fanno, non si riempiono”. Perché l’essenza di questo lavoro è la notizia, è trovarla, è curiosare, è scriverla come nessun altro farebbe. Che scempio il “copia incolla” di oggi, vero Gigi? E non aveva forse ragione Umberto Eco rispetto a chi ha avuto sui social una voce che sì e no sarebbe rimasta al bar? Chissà quanto avremmo discusso sul fatto che i vari facebook, twitter e compagnia sono diventati una fonte…

E quanti ricordi, quanti… una vita professionale e non solo. Tremavo quando mi facesti chiudere dentro una cartellina pezzi, titoli, foto e menabò di una pagina da spedire… Il primo contratto articolo 36, quello da praticante per il quale andammo a “estorcere” la firma a Brunori, a Cassino, e ci fermammo a mangiare al ritorno a Priverno quando anche Mastrorilli della diffusione si infilò, la festa per la mia laurea, il matrimonio (“è la prima volta che resto fino al termine”), la tua scarsa affezione per il sindacato, le critiche ai sociologi – ma dicevi che non ce l’avevi con me – la passione per Montale, quella per Mina, quel piatto di prosciutto condiviso con pochi ma selezionati colleghi, le tragedie vissute in redazione per Susetta e Massimo che ci hanno lasciato troppo presto, il racconto di quando a Sezze fosti “recluso” dai Carabinieri per evitare guai dopo il delitto De Rosa o della preparazione del processo per il massacro del Circeo, i nostri processi per diffamazione, la gioia ogni volta che vincevamo al Tribunale di Cassino. A un certo punto eravamo diventati come la Lazio di quegli anni, la nostra Lazio che ieri sera ha voluto ricordarti – ne sono certo – con una di quelle vittorie che solo noi possiamo capire. Conservo la cassetta “Vhs” degli ultimi istanti dell’Olimpico e la contemporanea con Perugia… 14 maggio del 2000, uno scudetto indimenticabile.

Altro che “orso”, caro Gigi, c’erano slanci di grande divertimento. Basta che non si toccasse la “sacralità” del lavoro e che non si scherzasse sugli affetti familiari. Le parole lette da Francesco, in Chiesa, hanno riassunto al meglio. E sono certo ci sia la mano di Maddalena.

Noi sapevamo, Gigi, ma non ce lo dicevamo. Avevi già combattuto e vinto, alla grande, contro un tumore. Questo ha avuto la meglio. Resti nel cuore di Paola, Maddalena e Francesco – li abbraccio ancora forte – dei tuoi familiari, di chiunque ti ha apprezzato davvero. Resti nel mio. E come quella sera ti dico grazie, mentre in sottofondo su youtube (eh sì, i moderni mezzi…) Mina canta “E se domani….”

La lezione che arriva dal voto

casto

Sarà pure come dice Matteo Renzi, cioè che non è stato un voto di protesta, ma l’impressione è che la politica fatta di liturgie fini a se stesse, “correnti“, schieramenti, lotte per guidare un partito e per il potere fine a se stesso, per arrivare a contare se c’è da dividere qualcosa del “sottobosco“, abbia preso dei sonori schiaffoni. C’è – ed è forte – la voglia di cambiamento che ha vinto – per restare dalle nostre parti – a Nettuno come a Latina. Ma si è fatta sentire in maniera ancora più clamorosa a Roma e Torino.

Del Movimento 5 stelle e del suo “guru” Beppe Grillo, è noto, condivido poco o nulla. Certo è che molti li hanno sottovalutati e oggi ne pagano le conseguenze. Meglio, hanno sottovalutato la stanchezza di chi vota e si era – si è – francamente rotto di una “buca” al centro di Nettuno e dei numeri civici, ad esempio, così come di chi per tentare di vincere ha imbarcato politici (e metodi in alcuni casi poco ortodossi) dalla vicina Anzio. Chi vota, dopo Mafia capitale, dopo Marino e la sua figura, come poteva ancora dare retta al Pd? Giachetti era e resta una brava persona, ma sapeva che l’impresa era impossibile. Per non parlare di quel che resta del centro-destra che preso tra Bertolaso e Marchini, ha dimenticato/abbandonato la Meloni che al ballottaggio avrebbe dato alla Raggi più filo da torcere.

Ora i “grillini” sono chiamati alla prova più difficile, quella del governo. Sinceri auguri di buon lavoro all’amico Angelo Casto a Nettuno. Sa che il compito che lo aspetta è gravoso, ma già dalla nomina della giunta sembra andare nella direzione giusta. Andrà giudicato alla prova dei fatti, mentre piacciono meno le affermazioni dei supporter che danno – nella migliore delle ipotesi – per “accerchiati” i Comuni vicini. Calma, ragazzi. Parliamo di voti, di democrazia, è comprensibile lo sfogo ma non andiamo oltre. Si rischia di cadere nelle “guerre” del centro-destra che hanno caratterizzato recenti campagne sul territorio.

La prossima fermata, per Casto, è quella di Anzio. E’ un obiettivo legittimo e giusto da porsi, a maggior ragione dopo lo “sbarco” di anziati a Nettuno e dopo i toni tutt’altro che tranquilli usati verso di lui.  Sarà bene, però, che i Cinque Stelle ci facciano capire bene chi li rappresenta sul territorio e quale metodo useranno ad Anzio dato che un consigliere comunale ce l’hanno. Non abbiamo visto Cristoforo Tontini gioire per l’elezione di Casto (si veda nota sotto, però) ma intanto ha dichiarato che chiederà al prefetto di sciogliere il Consiglio anziate per i ritardi sul bilancio. Non avrà brillato in questi anni, ma lui è il rappresentante fino a prova contraria. E qual è il “meetup” giusto? E non sarà che questa “rete” nasconda moderne “correnti” di democristiana memoria? E’ una provocazione, sia chiaro, la lezione che arriva dal voto è chiara. Ma a Latina con due senatori e un deputato – che avevano poi lasciato il Movimento – e tre diversi “meetup” la certificazione delle liste non è arrivata.

Una cosa che ha quasi certamente favorito l’esperimento civico di Damiano Coletta, cardiologo che riesce con le sue liste dove il Pd e il centro-sinistra hanno fallito: mandare a casa dopo 23 anni un centro-destra litigioso e rancoroso, alle prese con lotte di potere che abbiamo visto anche a Nettuno (stesso protagonista, il coordinatore regionale di Forza Italia, Claudio Fazzone, Acqualatina sullo sfondo…). Un centro-destra che a Latina era “nato” come esperienza di governo con Ajmone Finestra nel ’93.

Mentre il Pd si “uccideva” sulle primarie, candidava cavalli di ritorno della Prima Repubblica, puntava a un uomo di partito che fa politica da quando era ragazzino come Enrico Forte, non si accorgeva di perdere proseliti e consensi. I cittadini gli hanno dato una lezione , Latina bene Comune e le sue liste hanno saputo interpretare meglio di chiunque altro ciò che il Pd doveva essere e non è stato dalla sua fondazione a oggi. Qualcosa che andava oltre il partito inteso in senso tradizionale e guardava, davvero, alla società civile. Una sonora lezione.

Buon lavoro a Casto, Coletta, a tutti i nuovi sindaci, di ogni schieramento. Ne hanno bisogno, ora questa voglia sacrosanta di nuovo e cambiamento è chiamata alla prova dei fatti.

***

Vengo giustamente “richiamato” da Cristoforo Tontini. Non mi ero accorto, nel marasma elettorale, del suo post di complimenti a Casto. Correggo e chiedo scusa pubblicandolo. Questa era e resta una provocatoria riflessione sul voto….

cristpost

Giornalisti di provincia, più forti delle intimidazioni

Vittorio Buongiorno

Vittorio Buongiorno

La vicenda che ha riguardato il collega Vittorio Buongiorno, capo della redazione di Latina del Messaggero, porta alla luce per l’ennesima volta una situazione molto pesante nel territorio pontino. E’ la punta di un iceberg, non si era mai arrivati a minacce di morte, ma l’elenco di chi vorrebbe mettere il bavaglio è lungo. Lunghissimo.

Nella redazione del Messaggero abbiamo ben presente quella domenica, i giorni successivi con i “passaggi” delle forze dell’ordine a verificare che fosse tutto a posto, le piccole precauzioni, la difficile scelta tra la riservatezza delle indagini e quella di scrivere tutto e subito. Si è preferita la prima e i risultati, per fortuna, si vedono. Perché contro certa gente erano stati pochi, finora, a mettere nero su bianco una denuncia. Vittorio lo ha fatto, noi  siamo stati al suo fianco, oggi tanti altri colleghi e non esprimono solidarietà e apprezzamento per il coraggio di chi aveva scritto raccontando fatti.  E dando evidentemente fastidio.

Ma in questa provincia  è pieno di gente che non è minacciata di morte, magari, ma è subissata di querele temerarie. Chi scrive, per aver riferito di un boss dei Casalesi che chiedeva e otteneva ospitalità in una nota struttura ricettiva, il titolare della quale faceva poi iniziative sulla legalità, è arrivato fino in Cassazione per avere ragione. La querela era stata archiviata, ma il personaggio non intendeva mollare.

Di casi del genere siamo pieni, i colleghi di Latina Oggi hanno avuto un record di querele solo per aver scritto delle gesta – poco eroiche – dell’ex presidente della Provincia, Armando Cusani, al punto che dopo una serie di archiviazioni o assoluzioni l’Associazione Stampa Romana ha presentato un esposto alla Corte dei Conti perché quelle querele erano pagate con i soldi dei contribuenti.

Per non parlare dei giovani collaboratori aggrediti nel Sud Pontino, delle battutine poco piacevoli,  di chi chiama l’editore e “tuona“, di un’altra serie di episodi  come le maxi richieste di risarcimento danni. L’osservatorio Ossigeno, cliccando Latina, fornisce questo quadro. Desolante.

In una provincia dove le mafie sono ormai radicate, perché quando iniziavamo questo mestiere sentivamo di infiltrazioni, mentre oggi abbiamo sentenze passate in giudicato con l’accusa di 416 bis. Con il compianto Santo Della Volpe e la collega Graziella Di Mambro abbiamo lavorato, in occasione della giornata di “Libera” a Latina due anni fa, al Manifesto dell’informazione locale che era e resta il faro da seguire in un territorio dove i tentativi di condizionamento sono pressoché quotidiani.

Nel 2007, in occasione del congresso nazionale dell’Unione cronisti a San Felice Circeo, portammo i colleghi in diversi luoghi della provincia. Volemmo dimostrare quanto, anche geograficamente, fosse difficile raccontare ciò che avviene. Ma le distanze si superano, i viaggi “infiniti” verso il sud, la difficoltà di salire sulle colline con il maltempo,  di arrivare sulle isole se c’è qualche evento, sono nulla di fronte ai tentativi di bavaglio di ogni genere.

Vittorio ha dimostrato che i giornalisti di provincia – quelli che vivono in prima linea, quelli che incontrano ogni giorno le persone delle quali scrivono – sono più forti delle intimidazioni. Con lui, ogni giorno, cerchiamo di essere tutti più forti.

Quotidiano di Latina, viene da piangere. Sciopero e uscita, adesso come allora…

quotidiano

Ammetto, sono molto combattuto. Viene da piangere di fronte a quanto sta accadendo al quotidiano di Latina, già Latina Oggi. In quella sede, con alcuni dei colleghi che ancora oggi sono lì, ho vissuto un’esperienza umana e professionale unica. “Facevamo” il giornale, senza starci a preoccupare troppo del potente di turno. Ha ragione Lidano Grassucci quando dice che andato via Sandro Panigutti è sostanzialmente finita un’epoca. Al direttore dimissionario va la mia vicinanza e solidarietà, lo stesso ai colleghi di un tempo (ormai pochissimi) e di adesso, che hanno con grandi sacrifici portato avanti fino a oggi un’esperienza a dir poco travagliata. Perché dall’avvento prepotente di Giuseppe Ciarrapico, a partire dalle europee del ’99, quel giornale non era più stato lo stesso. Continuavamo a “farlo” ma c’era sempre qualche politico di casa nostra che ci faceva convocare a Roma. Lo trovavamo lì, vicino al Ciarra, e la “linea” subito dopo cambiava. Anche più volte al giorno: stiamo con Tizio, anzi no con Caio. Possono testimoniarlo più colleghi e diversi esponenti politici, alcuni ancora sulla breccia. E senza quei colleghi, comunque, oggi vicende come quella di Fondi – con il mancato scioglimento del Consiglio comunale che era e resta uno scandalo – o la gestione dell’Amministrazione provinciale, forse non sarebbero mai emerse.

Era difficile fare il giornale, nonostante Gigi Cardarelli cercasse di tenere la barra dritta. Poi con Ciarrapico – che nel frattempo era ricercatissimo da destra e sinistra, cosa non si fa per comparire… – è andata come sappiamo. E’ arrivato Andrea Palombo, salvatore della patria, ma la musica non è cambiata. Anzi. C’è stato un fallimento diciamo singolare, una sentenza “copia e incolla” che andrebbe approfondita, ma anche qualche passaggio poco chiaro tra una testata e l’altra, una gestione e l’altra. Tanto che se ne occupa la Procura. Fino a oggi, all’ennesimo tentativo di rilancio fallito e all’attenzione a una società – la Nuova editoriale oggi – da andarsi a riprendere. Il tutto senza pensare a posti di lavoro a rischio, a un’esperienza che è stata e resta unica nel suo genere. Che ha dato al giornalismo di questo territorio molto, ricevendo pochissimo. A cominciare da “cordate” o simili, passando per editori che nemmeno sanno di cosa parlano. In questo caso, come nelle altre esperienze editoriali che sono andate male (il Territorio, la Provincia, il Latina Oggi notizie che voleva scimmiottare quello vero, Tele Etere) o rischiano di andarci (Lazio Tv). Sono combattuto – anzi ero, ormai ho scritto… – perché ho lavorato in quel Latina Oggi e ne vado fiero, perché conosco (e bene) e ho un rapporto di amicizia con il proprietario della maggioranza della Qap editore, ma anche per il ruolo sindacale che ho avuto fino a qualche tempo fa. Siamo alla vigilia del congresso di Stampa Romana e altri dovranno essere fiduciario in provincia. Se una responsabilità hanno i giornalisti pontini è proprio quella di essersi accorti sempre troppo tardi del sindacato, di averlo “scansato” fino a quando la situazione era ormai precipitata.

Due cose, infine, sembrano accomunare il Ciarrapico dei tempi migliori – quando, almeno, pagava sempre regolarmente gli stipendi – al Palombo di oggi. La prima: sono editori del quotidiano ma formalmente non compaiono. La seconda: di fronte a uno sciopero dell’intera redazione hanno fatto uscire ugualmente il giornale. Allora era per il contratto nazionale, adesso per rivendicare gli arretrati. In entrambi i casi ai colleghi che si sono fermati è stato risposto con un prodotto di pessima fattura. Allora si ruppe un incantesimo, un gruppo coeso di colleghi, alcuni di noi presero strade diverse. Adesso è stato fatto di peggio con le firme di chi scioperava (Luca Artipoli, Alberto Dalla Libera e Alessandro Marangon) finite sul giornale. Si dice “per errore”. No, ha ragione Stampa Romana: questo si chiama – e si chiamava anche allora – comportamento antisindacale.

Ciao Pierluigi e grazie di tutto

cava

Guarda che serve uno su Anzio, c’è da seguire il baseball ma non solo, parlo io con il Conte“. Mi avvicinai così a Latina Oggi, ormai oltre 25 anni fa, grazie a Pierluigi Cavallini (la foto è del “Giornale del Lazio”) che ci ha lasciato questa mattina . Lui era corrispondente da Aprilia, aveva cessato la collaborazione con il Tempo per avventurarsi nel nuovo quotidiano. Aveva seguito il Conte, al secolo Paolo Brunori, ma anche Gigi Cardarelli e Romano Rossi. Avrei conosciuto tutti dopo, a presentarmi l’occasione era stato proprio lui, dopo una chiacchierata a Campoverde presente il nipote, Gianlorenzo, che abbraccio fraternamente, e la scoperta della mia passione per questo fantastico mestiere.

Un personaggio d’altri tempi, un linguaggio da giornalismo “arcaico” per allora – quante liti sulle maiuscole da togliere… o sulla Benemerita… – ma senso della notizia innato. Arrivava prima, non ti faceva prendere “buchi“, di Aprilia sapeva tutto.

Da quello che “serviva” su Anzio, infatti, arrivai in redazione e poi a coordinare le pagine provinciali. Con Pierluigi il confronto – lo scontro a volte – era quotidiano. Ma “sulla” notizia lui c’era. Sempre. Non che fosse appassionato di cronaca, ma della sua città sicuramente sì.

Pazienza per qualche maiuscola di troppo e scusa “Cavallo” se qualche volta non ci siamo capiti. Se oggi sono arrivato fin qui è grazie alla tua segnalazione al Conte: “Sei appassionato, va bene così, guarda che serve uno su Anzio...” I casi della vita.

Ciao Pierluigi e grazie di tutto.