Ciao Francesco, è una promessa: non molleremo

Ci sono notizie che ti lasciano senza fiato. La morte di Francesco Squintu è una di queste. Un infarto fulminante lo ha portato via, mentre ad Anzio, a Villa Sarsina, si scriveva una pagina di storia alla quale aveva dato il suo contributo. Ho conosciuto Francesco sette anni fa, alla vigilia della mia candidatura, nella sede del Pd. Abbiamo trascorso insieme quei mesi, fino alla sonora sconfitta, scoprendo che avevamo una comune provenienza dai Radicali e che sui diritti ci trovavamo sempre. Ricordo gli incontri alla neuropsichiatria di Villa Albani per affrontare i problemi e cercare soluzioni, in un modo che solo chi vive in casa un’esperienza del genere può fare. Si era candidato, come tutti senza grande successo, non aveva mai mollato prima con Italia Viva e poi nel lungo e difficile percorso – tra un caffè e l’altro, a disegnare possibili scenari – che ha portato all’intesa per Lo Fazio sindaco, fino alla vittoria inaspettata. E per questo ancora più bella: “La strada è cominciata sette anni fa. Non si arriva alla fine se non si parte. Con pazienza si semina anche quando sembra inutile. Ciò che sembrava impossibile si è realizzato. Per me una fetta della gioia di ieri nasce da quella sconfitta” – ha scritto sotto un mio post che celebrava quel momento, il 3 dicembre.

E quando ho detto che il blog avrebbe cambiato pelle, settimana scorsa: “Serviranno sempre le tue parole. Che saranno da sprone alla nuova classe politica emergente della nostra Città, per non cadere negli errori del passato. Ripristinare la normalità amministrativa, un rapporto non più da sudditi con i Cittadini e un occhio al futuro“. Oggi vorrei tanto che queste parole non servissero, perché sono velate di tristezza.

Francesco, orgogliose origini sarde, dirigente d’azienda e consulente, poteva forse non essere “portodanzese” ma ha avuto a cuore questa città mettendosi sempre a disposizione e portando una passione senza eguali in tutto ciò che faceva.

Possiamo solo fare una promessa, caro Francesco: non molleremo.

Addio a Elio Marcoccia, il nostro “Eroe” del baseball

Mi piace partire dall’immagine a fianco, quando in occasione dei “50 anni di baseball ad Anzio” lo facemmo premiare dal tesserato più piccolo della squadra dei Dolphins. In segno di continuità, di una storia che proseguiva. Era il 20 ottobre 2019. Elio Marcoccia, per tutti “Eroe”, è mancato oggi all’ospedale di Latina. Aveva 83 anni. Quella targa, destinata a tutti coloro che erano stati presidenti nelle squadre di baseball costituite ad Anzio, era la prima da consegnare. Il motivo? Lui, nel 1969, era stato il primo presidente della neonata società. Erano anni di fermento, il gruppo che si identificava nel “Moderno” (il cinema di piazza I maggio, era il luogo di ritrovo) aveva componenti impegnati su fronti diversi.

Lui lo era nello sport, dove avrebbe attraversato discipline ed epoche diverse. Aveva giocato a pallanuoto (e si racconta che da portiere, data la sua altezza, nella piscina troppo bassa di Velletri riuscisse a toccare a terra), era stato dirigente del baseball e poi della pallavolo. Lo definirono “Eroe” – e se ne va con questo soprannome – perché a soli 16 anni decise di arruolarsi in Aeronautica. Io lo ricordo da quando ero bambino, alle “Quattro Casette”, dietro all’Anzio “ammazzagrandi”, in quel periodo d’oro con Angelo Scagnetti presidente.

Aveva un’altra caratteristica: in pratica era l’unico a parlare fluentemente inglese e le trattative per i giocatori d’oltre oceano le conduceva lui. L’ho rivisto sempre volentieri, sul campo di baseball o in piazza ad Anzio. Prima che papà (per tutti “Zi Carlo”) se ne andasse, mi chiedeva sempre delle sue condizioni di salute. Se c’era da criticare qualcosa che avevo scritto – prima sul Granchio e poi qui – non si tirava indietro, anzi, ma era capace anche di apprezzamenti che da uno con il suo fare da burbero non ti saresti mai aspettato. L’ultimo incontro fu proprio lì, nello stadio che insieme ad altri aveva contribuito a realizzare ed è intitolato a Renato Reatini, per tutti “James”, anche lui di quel gruppo del “Moderno”. Ci ritrovammo per l’evento e per consegnare la targa, non smetteva di ringraziare, invitò me e gli altri a non mollare, perché il baseball insegna a farlo. Poi arrivò il Covid, quindi il mio trasferimento, ma in fondo meglio che io conservi quel piacevole ricordo. Oggi che lo piango, sono certo che io né quanti di noi abbiamo praticato e continuiamo a seguire questa fantastica disciplina ad Anzio, dimenticheremo il nostro “Eroe”

Addio a Fiore De Santis, indimenticabile quel “duetto”

Mi giunge la triste notizia della morte di Fiore De Santis, imprenditore nel settore delle pompe funebri capace di associare diverse agenzie della provincia sotto l’egida della Ifal, consigliere comunale e assessore per lungo tempo a Sermoneta, persona sempre disposta al dialogo con i giornalisti e soprattutto a fornire qualche “dritta”.

Quando volevo fare questo mestiere, all’università tenne una lezione Giampaolo Pansa che ci disse che dovevamo conoscere un direttore di banca, saperci muovere in tribunale e alla camera di commercio. Aveva perfettamente ragione, ma aveva dimenticato che un cronista deve avere rapporti anche con chi ha agenzie funebri. Sono loro che intervengono sempre, dall’incidente al decesso del personaggio noto, fino all’omicidio.

Con lui, sin dai tempi di “Latina Oggi”, si era instaurato un rapporto di reciproca fiducia. Se accadeva qualcosa e non ti vedeva arrivare, chiamava per dirti che fine avessi fatto. Quando c’eri, bastava uno sguardo per capirsi e dirgli, senza parlare “se c’è una foto della vittima, mi raccomando….” E se arrivavi in una casa – i social non c’erano e le suole andavano (come andrebbero) “consumate” – di fronte a qualche titubanza dei familiari era lui a mediare. E poi qualche dritta su come fosse andata l’autopsia, quella sulla fissazione delle esequie…. Ma anche la disponibilità, a Sermoneta, per qualsiasi cosa ti servisse. Una sera, se non ricordo male era il 2007, ospitavamo al castello la cena del congresso dell’Unione nazionale cronisti. La Compagnia dei Lepini aveva organizzato, insieme al Comune, l’accoglienza ma non avevamo fatto i conti con qualche anziano partecipante ai lavori. “Fiore, ma come lo aiutiamo a salire a questo? Come fate con i funerali?” E lui, serafico: “Vado a prendere una cassa e lo porto sopra...” Per fortuna, alla fine, non servì.

Il massimo fu in occasione della tragedia che sconvolse la città, ma l’Italia intera, con un’esplosione nella caserma dei carabinieri di Latina. C’erano i media di tutto il Paese e si svolgeva l’autopsia, i colleghi arrivati da altrove non conoscono la camera mortuaria dell’ospedale “Santa Maria Goretti” ed erano giustamente tutti piazzati dal lato in cui sarebbe uscito il medico legale. Io ero lì per l’Ansa e il Messaggero e vidi spuntare Fiore dalla parte opposta, quella per intenderci dove si possono visitare le salme. Mi avvicinai, chiesi del funerale e di altre curiosità, mi misi al telefono per dettare all’Ansa la fissazione delle esequie per il giorno dopo. Fiore si fermò a fumare una sigaretta poco distante. Un collega con accento del nord arrivò trafelato, mi chiese chi fosse e io “Il sostituto procuratore Fiore De Santis“. Lui capì al volo e quando il giornalista si avvicinò, rispose: “Ho detto tutto a Del Giaccio” e se ne andò, voltando le spalle. Fummo capaci, in una circostanza tragica, di inscenare un “duetto” che mise in evidenza quella reciproca fiducia e fece sottintendere a Fiore – verso quel collega – “non ti conosco, non so chi sei“. E’ anche questo il giornalismo locale, di “prossimità” come dicono quelli che hanno studiato. Ne riparlammo spesso, sempre scherzandoci sopra, di quella vicenda. Era anche un rapporto diverso e amichevole tra fonte e giornalista, senza tutti gli “orpelli” di chi oggi vuole autorizzare a dare notizie, come l’ex ministra Cartabia, procuratori timorosi, forze dell’ordine che aspettano il via e temono chissà cosa.

Non lo vedevo da tempo, una volta incontrandolo a Sermoneta capii che non stava bene perché fece fatica a riconoscermi. Chiesi ai “suoi” della Ifal – che abbraccio forte, a partire dal figlio – cosa fosse successo ma confermarono solo che aveva un problema. Restano tutte le volte che mi ha dato una mano, quella sera a Sermoneta (ma anche altre, davanti alla polenta prima della sagra), quell’indimenticabile “duetto”. Non sarà stato un magistrato, come io l’ho definito quel giorno, ma una persona importante per il mio lavoro. E glie ne sarò sempre grato. Ciao Fiore!

Ciao Marco, quanti “scazzi” e che bella amicizia…

Marco Sacchi (foto Idoctors.it)

“Spiacere è il mio piacere”, canta in “Cirano” Francesco Guccini e a lui di andare a genio a tutti importava poco. Marco Sacchi, dirigente della chirurgia dell’ospedale “Santa Maria Goretti” di Latina, ha lasciato questa terra e io sono triste. Lo conobbi nel ’99, insieme all’inseparabile amico ortopedico Gianluca Tamburella, anche lui scomparso troppo presto, appena arrivato in un ospedale che in pratica non aveva più primari. Era allo sbando e compito di Marco, come degli altri, era fare in modo che il “Goretti” tornasse ad avere una reputazione. Frequentavo, come ho fatto fino al Covid, l’ospedale per lavoro e l’impatto fu dirompente: “Sto un po’ qua e poi torno a Roma, ho girato il mondo (era andato persino in Vietnam a specializzarsi sul fegato), sistemo e ciao”. Della serie, questa la prima impressione: qua capite poco, ci penso io e poi vi saluto. Invece non se n’è più andato, portando la chirurgia di Latina, in particolare quella contro i tumori, a livelli eccellenti. E diventando il primo paladino del “Goretti”. “Vedi – mi disse una volta – quando uno ha un tumore c’è sempre qualche familiare che ha amici a Milano o Parigi, quello comincia a fare il giro del mondo, non ci considerano mica perché non siamo capaci, ma perché non vogliono bene al loro ospedale. Sono gli stessi che, invece, se hanno un infarto o arrivano per un’appendice strozzata o un ictus e vengono salvati, ci lodano”. Diciamo la verità, Latina gli stava un po’ “stretta” ma qui aveva riunito, al “D’Annunzio”, il gotha della chirurgia nazionale, invitandomi anche a moderare uno degli incontri. Nel nostro rapporto c’erano alti e bassi, lo cercavo se c’era un fatto di cronaca “Marco ma sai che è successo?” Sorrideva: “Aho, non l’hai ancora capito. Non voglio sapere che è successo ma come sta il paziente”. E ti diceva com’era andato l’intervento e quello che comunque, in qualche modo, aveva saputo. Nel rapporto fiduciario con una fonte divenuta amica. Sapeva che poteva fidarsi.

Un professionista da chiamare, anche di notte, se c’era bisogno. E che, al contrario di tanti saccenti che girano oggi nella sanità laziale e anche al “Goretti”, se non rispondeva richiamava sempre. Se avevi un dubbio su una vicenda potevi chiedere un parere (“ma non virgolettare, serve l’autorizzazione, sai che palle poi…”) oppure “Ma è vero che le sale operatorie non potete usarle perché ci sono appoggi dalla rianimazione?” “E che te l’ho detto io?”. Era il modo per andare alla fonte e avere conferma, perché se fai questo mestiere funziona così. Rapporto che qualche volta s’è incrinato, come quando riservò una stanza alla signora Finestra, moglie del sindaco, dopo un incidente e scrissi che c’erano state polemiche. “Anche a teatro c’è un posto riservato” disse al telefono mandandomi a quel paese. La prendemmo male entrambi, poi Gianluca Tamburella ci portò a mangiare una pizza da Gennaro ed era come se non ci fossimo mai bisticciati. Tenni segreto, e oggi mi perdonerà se lo racconto, che si ruppe un piede perché gli era caduto sopra il tavolo operatorio “non lo scrivere sennò è un casino”. Sai che roba, “audit” clinici, ispezioni, chi più ne ha ne metta, invece con tutto il gesso andava in sala operatoria. Perché quella era casa sua. Lì interveniva sui tumori, lì salvava vite (“ma scrivi solo se mi indagano o se qualcuno muore”, era la sua battuta preferita pur sapendo che seguivo anche altro) in quell’ospedale si arrabbiava perché l’attività programmabile (di “elezione”, appunto) era ferma. Era arrivato apposta, per “attrarre”, ridurre la mobilità passiva, restituire fiducia ai cittadini e invece ultimamente era costretto tra urgenze e tumori. “Io opero anche ad agosto – ribadiva – almeno abbiamo un po’ di margine di manovra in più”. Era arrivato per stare poco, così raccontava, è rimasto praticamente 25 anni ma ultimamente la malattia lo aveva tenuto lontano. Ci eravamo sentiti dopo il Covid, mi aveva fatto i complimenti per il trasferimento a Frosinone e la nomina a capo servizio (“mi raccomando, non fa danni eh….”), a Natale se non si poteva brindare in chirurgia, il 24, c’era sempre un suo biglietto o messaggio. “Spiacere è il mio piacere”, torno alla frase iniziale, e con i vertici Asl che dal ’99 in poi si sono succeduti è stato sempre un rapporto di amore-odio. Che battaglia, poi, quando arrivò “La Sapienza” e lui guidò i medici ospedalieri in un’assemblea al “Porfiri” per dire “no, grazie”. Pure su questo, però, non eravamo d’accordo e allora appena lui aveva una pubblicazione scientifica della sua équipe mi chiamava e diceva “l’abbiamo fatta noi, mica l’università”. Oggi, senza tema di smentita, dico che la sanità pubblica perde un pezzo importante.

Grazie per le volte che mi è servito un aiuto e ci sei stato, pazienza se la promessa di portarmi una volta in sala operatoria – a vedere come funziona – è rimasta tale. Ci siamo “scazzati” spesso, ma è quello che succede tra amici e persone che si stimano. Sono triste, caro Marco, lo ripeto. Tra noi lo “spiacere” durava poco ed è stata una bella amicizia.

Franco e quella delibera “galeotta”. Ciao, caro amico mio

Diventammo amici quando scrissi, per Latina Oggi, che era stato necessario fare una delibera per restituire 5 o 6000 lire a una mamma che aveva pagato oltre il dovuto una prestazione per il figlio. Da alcuni mesi le 6 ex USL pontine erano state unite in una sola azienda e Franco Brugnola ne era diventato direttore amministrativo. Al vertice c’era Roberto Malucelli, direttore sanitario Francesco Perretta. Sì, come oggi i posti si dividevano, poco è cambiato tra prima e seconda repubblica. Però si guardava alla qualità. Ho seguito la Asl di Latina dalla sua nascita e devo dire che di qualità, successivamente, ne ho vista poca. Ma non c’entra, adesso, perché mi piace ricordare Franco uomo e professionista, appassionato di numeri e informatica, conoscitore della macchina amministrativa pubblica come pochi, sempre “contro” chiunque governasse se c’era da difendere un lembo di sanità pubblica e onesto fino al midollo.
Quella volta ci incontrammo all’ingresso di piazza Celli, io ero lì come sempre a spulciare l’albo pretorio e lui “ma che vai a trovare, vieni con me“. Andammo nel suo ufficio, il quadro con lo spettacolo teatrale del fratello che non c’era più lo accompagnava sempre. Mi disse che avevo fatto bene a scrivere e che era vero, fare una delibera era più costo del rimborso, ma occorreva cambiare le regole e lui lo stava facendo. Nacque così il nostro rapporto e da lì non ci siamo più persi di vista. “Guarda che è bravo” – mi disse frettolosamente e con i suoi modi rudi Luciano Mingiacchi con il quale ne parlai e che lo conosceva bene. Sapeva di non sbagliare. Andò a Formia come direttore generale del Comune, alla Roma 6 commissario e poi direttore amministrativo, in Toscana a seguito di Malucelli che veniva, è vero, dal mondo delle Coop ma nel frattempo aveva imparato a conoscere la sanità. Poi Franco andò all’istituto zooprofilattico. Dalla pensione aveva iniziato a scrivere libri e io a presentarli sempre con piacere. Una volta anche ad Anzio, con una bel confronto con il sindaco Luciano Bruschini. Venivano entrambi dalla scuola della prima repubblica ed era un valore aggiunto. L’esperienza di candidato sindaco a Sabaudia – la sua città di adozione e scelta per la vita – non era piaciuta ai cittadini che votarono altri. Come accadde a chi scrive qualche anno dopo. E Franco c’era: “Non potrò fare il dirigente né ho voglia di fare l’assessore, ma se vinci una mano te la do”. Rileggere oggi quello che disse all’incontro in campagna elettorale è ancora istruttivo. Anzio, però. guardava altrove.

E’ la democrazia, ma che fosse “malata” di qualche vicinanza alla malavita lo temevamo già. Eravamo d’accordo che in caso di vittoria sarebbe venuto per un paio di giorni in “ritiro” con noi a spiegarci come funziona la macchina amministrativa, cos’è il “Sindaco di tutti” ma poi ci avrebbe fatto comodo anche il suo “Manuale per un consigliere d’opposizione”. Lo cercammo per i primi bilanci, poi ogni volta che c’era un dubbio. Della malattia parlava poco ma quando poteva lodava il personale del “Goretti”, intanto preparava “libri bianchi” sulla sanità, voleva che il cinema Augustus restasse patrimonio di Sabaudia ed era in prima fila nella battaglia per i “Pat”, i punti di assistenza territoriale. Lì non è che fossimo così d’accordo, però il principio era giusto: se togli un servizio (non di vitale importanza, ripetevo io) devi darne un altro adeguato. Appena saputo che sarei andato a Frosinone mi fece i complimenti e chiese di parlare del suo libro “bianco”, della carenza di posti per mille abitanti, dello squilibrio verso il privato, dei costi elevati per alcuni servizi. Dovevamo presentarlo insieme, ad Alatri, ma un suo malessere non lo ha consentito. Oggi che Franco se n’è andato dico che dovremo farlo lo stesso. Insieme all’amata moglie che stringo forte in questo doloroso momento.

Per ricordare un servitore dello Stato, un manager pubblico di assoluto livello. Un amico perduto. Ciao!

Io, Danilo e quel piatto di gnocchi…

“Guarda che mica ti abbiamo candidato sindaco”. “Guarda che lo so”. Avevo capito perfettamente che non ci sarebbe stata alcuna alleanza, ma visto che eravamo a Latina – un po’ una seconda casa per me – avrei offerto lo stesso quel piatto di gnocchi a Danilo Fontana. Le amministrative di Anzio del 2018 erano ancora abbastanza lontane, lui era nell’opposizione di lotta e di governo a Luciano Bruschini, insieme a Candido De Angelis e voleva sondare il terreno. Non era venuto autonomamente, avrebbe riferito, e quando dissi che potevo pure starci benché i principi fossero quello di cinque anni prima e cioè che andavano mandati “a lavorare” quelli che avevano scambiato il Comune per l’ufficio di collocamento e che avrei portato un prefetto che era stato commissario nei comuni sciolti per mafia come capo di gabinetto, la discussione prese un’altra piega. Si poteva anche accettare il nome “spendibile” e “nuovo”, ma che qualcuno andasse a mettere le mani nel “sistema Anzio”, no. Erano buoni quegli gnocchi, non c’è dubbio, e mi piace ricordare questo aneddoto oggi che il vice sindaco di Anzio ci ha lasciato. Delle tante cose che si leggono in queste ore ne condivido solo una: il modo nel quale ha affrontato la malattia. Un coraggio e una dignità senza eguali. Poi, come ho scritto sul libro delle firme in ospedale, “avversari sempre, nemici mai”. D’altra parte era difficile essergli “nemico”, benché non condividessi il suo modo di “fare” politica. Quel sorriso sornione, quel prendere una delega oggi da Bruschini e lasciarla domani, l’aver attraversato più partiti nel centro-destra pur di arrivare a essere lì. L’aver sostituito il potere di chi doveva “andare a lavorare” nel 2013 alleandocisi prima e facendo peggio poi, in questa maggioranza.

Passava per il “dottor Sottile”, era stato consigliere anche in Provincia, sapeva di tutto e di tutti, non gli sfuggiva nulla e anzi provava pure a intercettare qualcosa che andasse oltre il suo ruolo. Come nella vicenda del conferimento alla biogas per la quale il sindaco sarebbe andato all’Onu ma poi si è fermato alla Sacida. Di certo aveva un sorriso per tutti, sempre, anche nei momenti più bui. Della malattia avevamo parlato a una manifestazione per l’ospedale, si trattava di qualcosa di subdolo, c’era la cura sperimentale in Toscana, si doveva combattere. E lo ha fatto. Restando fino all’ultimo forse ormai l’unico – anche se parlava a bassa voce – a essere ascoltato dal sindaco De Angelis. Un rapporto che andava oltre la politica, diventato una solida amicizia, e se il primo cittadino faceva come al solito un po’ il presuntuoso lui ribadiva “eh, tu hai studiato, io batto i telai in carrozzeria….”. Invece si era laureato anche lui, nonostante la malattia. Un sogno che si era avverato. L’officina era però la sua “creatura” e se ti serviva una cosa non c’era domenica o festivo che non potessi chiamarlo. Diceva sempre che aveva stima di me e ricordava un episodio delle sue prime esperienze da consigliere, quando fu costretto alle dimissioni, mostrando gratitudine per come avevamo affrontato la cosa sulle colonne del “Granchio”. Non è da tutti, chi “fa” politica ad Anzio ha nel Dna una certa arroganza, lui se pure fosse non la mostrava. Le sue convinzioni sì: “Ma quale prefetto, lascia perde, serve un bravo segretario”. O un segretario che a volte guarda altrove, com’è stato per l’ultima che abbiamo avuto in Comune. Resta quel piatto di gnocchi e – visto quanto accaduto poi – la necessità davvero di un prefetto che se ne intendeva di condizionamento dei comuni. Ah, che non sarei mai diventato sindaco era chiaro da allora, ciao Danilo.

Addio a Giorgio: la città, la politica, le nostre incomprensioni

“Io mi dico è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati”. E’ una frase di Fabrizio De Andrè. La voglio usare per dire, subito, quale fosse il mio rapporto con Giorgio Pasetto deceduto oggi. Tante incomprensioni e pochi “slanci”, lui – come Luciano Mingiacchi – non mi ha mai “perdonato” di non essere tra le schiere di chi lo seguiva. Forse perché dopo aver “cresciuto” Aurelio Lo Fazio, mio cugino, e vista la passione che mio padre metteva in quella corrente della Dc (i “basisti”) pensava fosse naturale che ci fossi pure io. Invece no, erano più scontri che intese, com’è normale soprattutto quando provi a raccontare in maniera diversa la città da come si era fatto fino ad allora. Quando volevo fare questo mestiere, il collega Marcello Ciotti che ci diede i primi rudimenti disse: “All’inizio non vi fileranno, li dovrete cercare, ma poi saranno loro a chiamarvi”. Si riferiva ai politici. Giorgio chiamava poco, ma quando lo faceva sapevi quando entravi e mai quando saresti andato via. Partiva da A, finiva a Z, ricominciava da M e tu chiedevi di essere concreto ma nulla…

Aveva preso, quando era in Regione, a convocarci per Natale e raccontare cosa si stava immaginando. Tra questo il nuovo ospedale che doveva sorgere tra Anzio e Nettuno, ad esempio. Poi, dopo la sconfitta alle politiche del ’94 nel “suo” collegio capì che la città che quattro anni prima lo aveva portato in Regione dove fu prima assessore e poi presidente della Giunta, si era ribellata in nome del “nuovo” allora rappresentato da Forza Italia. Incassò, attraversando sempre da protagonista la Dc prima, i Popolari, la Margherita, l’Ulivo e da ultimo il Pd. Era stato il sindaco più giovane di Anzio, quando la classe politica che aveva ricostruito la città dalle macerie aveva individuato alla fine degli anni ’60, in quel ragazzo uscito dall’Azione cattolica, un giovane sul quale puntare. Non avevano sbagliato, perché si poteva essere d’accordo o meno ma Giorgio era un cavallo di razza. Che come la stragrande maggioranza dei politici ricordava, però, sempre l’ultimo articolo, quello sgradito, e mai i precedenti. “Non mi intervisti mai” – diceva se lo incontravi con la bici sempre più arruginita e l’immancabile Lacoste, nei pressi dell’edicola di Rolando. “Le interviste si fanno quando c’è qualcosa da dire”, replicavo. Storceva un po’ la bocca, si avvicinava all’amico di una vita Luciano Mingiacchi e andava via. Aveva vissuto in una Anzio diversa e non aveva compreso, forse, la pessima china che aveva preso. O lo aveva capito benissimo, tanto da proporre studi su studi, incontri, nel tentativo di rimettere al centro le scelte politiche, quelle con la P maiuscola. Peccato che al capezzale del malato ci fossero, senza grandi successi, gli stessi dottori. Così era spesso un dibattito fine a se stesso, la città aveva virato, i consensi crollavano, le seconde e terze linee di quella che era stata la “sua” Dc avanzavano. Gli era rimasto, quando era già parlamentare, l’incontro del sabato mattina con gli intimi nella villa a Ponente, le scelte che pochi compresero – come quella di dire no a prescindere al nuovo porto – fatte nelle stanze del potere, l’incapacità di creare un’alternativa seria e credibile. “Abbiamo dato alla città le menti migliori” – amava dire riferendosi a personaggi vicini alla sua corrente. Ma le menti, ormai, non si avvicinavano più. E non se ne faceva una ragione.

Va detto che ripensando a quegli anni, visto il decadimento della classe politica e dirigente, i “re” delle preferenze, manca non Pasetto ma ciò che hanno rappresentato quei partiti. Con tutto il rispetto, c’è gente che in quelle organizzazioni non sarebbe stata fatta entrare o al massimo avrebbe attaccato i manifesti. Rimpianti? No, quella vituperata “Prima Repubblica” ha commesso errori a non finire, però aveva una dignità e una preparazione che si sono perduti nel corso degli anni.

Ammise – e gli costò tantissimo – che chi aveva sottratto dalle edicole tutte le copie del “Granchio” che riportavano la sua vicenda giudiziaria alla vigilia del voto per la Camera del ’94, aveva commesso un errore. Ne parlammo, uscì un’intervista, e ce ne furono altre successivamente. “Devi darmi una notizia” ripetevo, ma lui continuava a partire da A, finire con Z e poi tornare indietro… Aveva studiato, era cresciuto a pane e politica, se ha commesso un errore è stato quello di stringere sempre di più la sua cerchia su Anzio, come se il tempo non fosse passato. Ci incontrammo altre volte a Roma, al Senato (“qui pago io”, disse, e risposi che visto che costava così poco poteva pure farlo una volta…) o alla sede di Teorema. Non lo sentivo da tempo, sapevo del malanno e so che in fondo in fondo mi stimava. Mi piace ricordare che tra i “portatori d’acqua” c’era mio padre, ci fosse da raccogliere voti o da cucinare alle “tre giorni” di studio che si tenevano a Piglio. Era un altro mondo, un’altra politica, e certi modi li ho sempre avversati. E’ stato meglio lasciarci, dunque, ma oggi ad Anzio finisce un’epoca come riconosciuto anche dal sindaco De Angelis e a Giorgio Pasetto va se non altro l’onore delle armi e il riconoscimento di essere stato un gigante, in un mondo (quello della politica e non solo) fatto sempre più da piccoli uomini.

“Patalocco”, l’ultima rovesciata. Ciao Antonio

Una rovesciata di Antonio Rotelli (Foto Il Granchio)

E’ facile dire che con Antonio Rotelli se ne va un pezzo di storia di Anzio. Scontato, forse. Allora è bene aggiungere che se ne va un’altra parte di quella città “genuina” che abbiamo avuto la fortuna di conoscere. Antonio, detto “Patalocco” per le sue gesta calcistiche, era stato un’ottima mezz’ala – termine che nel calcio moderno è scomparso – una bandiera di quell’Anzio che univa il paese intero, senza pensare a quote societarie o carriere politiche, “cordate” o rendite di posizione. Le “rovesciate alla Patalocco” sono, ancora oggi, qualcosa che raccontiamo sia per la capacità tecnica (piace immaginare che lo straordinario primo gol in serie B dell’anziate Cassio Cardoselli, proprio su rovesciata, abbia un qualche legame con quei con i funambolismi di allora sui campi in terra battuta) sia per qualche strafalcione in politica. Perché dopo il calcio, Antonio è stato per 15 anni protagonista della vita amministrativa della città. Tra l’80 e il ’95 consigliere comunale e assessore per il Psdi, una passione che non è mai venuta meno anche successivamente. Era una politica, anche quella, più “pane e salame” come avrebbe scritto Gianni Mura. Al quale un personaggio come Antonio sarebbe certamente piaciuto.

Era una politica senza social, senza insulti, più “umana” ma anche durante la quale Anzio è rimasta paese, senza mai decollare verso la città alla quale poteva e doveva ambire. Non è un mistero che per il suo ruolo all’Inps, Antonio fosse un punto di riferimento se c’erano pratiche da sistemare. Lui ascoltava e risolveva, anche se non eri del Psdi, ma era ed è quell’andazzo paesano a chiedere e ottenere favori che evidentemente non è mai venuto meno. Un paese che in questo senso è rimasto al familismo amorale studiato in sociologia. Però in quella politica più “genuina” c’erano il rispetto oggi perduto, il valore di una stretta di mano, c’era la voglia di trovare soluzioni e non di “eliminare” avversari.

Ultimamente ci confrontavamo in piazza, prima dell’emergenza Covid, in precedenza quando accompagnava o prendeva i nipoti a scuola (un abbraccio a distanza a Fabio, Gianluca e tutti i familiari). Sulla mia candidatura disse – e lo sapevamo – che le speranze erano poche, perché avrebbe vinto l’arroganza. Quella che non ha mai avuto e che in quel mondo politico che lascia con la sua ultima “rovesciata”, non c’era. Ciao Antonio.

Antonio Rotelli (Foto Il Granchio)

Saluto un Avvocato d’altri tempi, maestro anche per i cronisti

Apprendo della morte dell’Avvocato Angelo Fagiolo e ripenso ai miei esordi da cronista. A quel principe del Foro che pensavo inavvicinabile e che, invece, si mostrò subito molto disponibile. Le aule dei Tribunali non sono il mio forte, le ho frequentate più da imputato per diffamazione a mezzo stampa (le querele, si sa, per i giornalisti sono “medaglie”) che da esperto di giudiziaria.

Però all’epoca – più di oggi – dovevi saper far tutto. Così, essendo uno degli imputati suo assistito mi avvicinai, un po’ timoroso, a quel signore d’altri tempi. Trovando una cortesia unica, una capacità di spiegare le cose semplicemente degna del miglior cronista di giudiziaria, una propensione  al dialogo straordinaria. Non lo avevo mai visto prima, ripeto, eppure non fece affatto pesare la cosa. Anzi, probabilmente comprese l’imbarazzo e l’impaccio del giovane giornalista alle prese con un processone qual era quello per l’operazione “Tridente” o -prima ancora – quello per i famosi parcheggi sul lungomare di Nettuno.

Non ebbi più molti motivi per frequentare il Tribunale di Velletri, ma capitò di andare nel suo studio – per essere ricevuto dal figlio Marco, al quale rivolgo un caro pensiero in questo triste momento – e lo vidi venirmi incontro per un saluto caloroso. Come se ci fossimo visti qualche giorno prima, invece era trascorso molto tempo. Lo stesso a Palazzo di Giustizia, da ultimo un anno e mezzo fa, a quando risale l’ultima stretta di mano accompagnata dal suo sorriso cordiale. Ricordava perfettamente chi fossi e per quale motivo mi trovassi lì, a seguire un processo. Mi dicono i colleghi che di più hanno frequentato e frequentano il Tribunale che abbia dato consigli a molti cronisti.

Un maestro per gli avvocati, insomma, ma anche per chi vuole raccontare i processi e grazie a lui ha evitato più di qualche strafalcione.

Sia lieve la terra, dunque, all’Avvocato Angelo Fagiolo. Io non posso che serbare un piacevolissimo ricordo e dire, ancora oggi, semplicemente grazie.