“Io mi dico è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati”. E’ una frase di Fabrizio De Andrè. La voglio usare per dire, subito, quale fosse il mio rapporto con Giorgio Pasetto deceduto oggi. Tante incomprensioni e pochi “slanci”, lui – come Luciano Mingiacchi – non mi ha mai “perdonato” di non essere tra le schiere di chi lo seguiva. Forse perché dopo aver “cresciuto” Aurelio Lo Fazio, mio cugino, e vista la passione che mio padre metteva in quella corrente della Dc (i “basisti”) pensava fosse naturale che ci fossi pure io. Invece no, erano più scontri che intese, com’è normale soprattutto quando provi a raccontare in maniera diversa la città da come si era fatto fino ad allora. Quando volevo fare questo mestiere, il collega Marcello Ciotti che ci diede i primi rudimenti disse: “All’inizio non vi fileranno, li dovrete cercare, ma poi saranno loro a chiamarvi”. Si riferiva ai politici. Giorgio chiamava poco, ma quando lo faceva sapevi quando entravi e mai quando saresti andato via. Partiva da A, finiva a Z, ricominciava da M e tu chiedevi di essere concreto ma nulla…
Aveva preso, quando era in Regione, a convocarci per Natale e raccontare cosa si stava immaginando. Tra questo il nuovo ospedale che doveva sorgere tra Anzio e Nettuno, ad esempio. Poi, dopo la sconfitta alle politiche del ’94 nel “suo” collegio capì che la città che quattro anni prima lo aveva portato in Regione dove fu prima assessore e poi presidente della Giunta, si era ribellata in nome del “nuovo” allora rappresentato da Forza Italia. Incassò, attraversando sempre da protagonista la Dc prima, i Popolari, la Margherita, l’Ulivo e da ultimo il Pd. Era stato il sindaco più giovane di Anzio, quando la classe politica che aveva ricostruito la città dalle macerie aveva individuato alla fine degli anni ’60, in quel ragazzo uscito dall’Azione cattolica, un giovane sul quale puntare. Non avevano sbagliato, perché si poteva essere d’accordo o meno ma Giorgio era un cavallo di razza. Che come la stragrande maggioranza dei politici ricordava, però, sempre l’ultimo articolo, quello sgradito, e mai i precedenti. “Non mi intervisti mai” – diceva se lo incontravi con la bici sempre più arruginita e l’immancabile Lacoste, nei pressi dell’edicola di Rolando. “Le interviste si fanno quando c’è qualcosa da dire”, replicavo. Storceva un po’ la bocca, si avvicinava all’amico di una vita Luciano Mingiacchi e andava via. Aveva vissuto in una Anzio diversa e non aveva compreso, forse, la pessima china che aveva preso. O lo aveva capito benissimo, tanto da proporre studi su studi, incontri, nel tentativo di rimettere al centro le scelte politiche, quelle con la P maiuscola. Peccato che al capezzale del malato ci fossero, senza grandi successi, gli stessi dottori. Così era spesso un dibattito fine a se stesso, la città aveva virato, i consensi crollavano, le seconde e terze linee di quella che era stata la “sua” Dc avanzavano. Gli era rimasto, quando era già parlamentare, l’incontro del sabato mattina con gli intimi nella villa a Ponente, le scelte che pochi compresero – come quella di dire no a prescindere al nuovo porto – fatte nelle stanze del potere, l’incapacità di creare un’alternativa seria e credibile. “Abbiamo dato alla città le menti migliori” – amava dire riferendosi a personaggi vicini alla sua corrente. Ma le menti, ormai, non si avvicinavano più. E non se ne faceva una ragione.
Va detto che ripensando a quegli anni, visto il decadimento della classe politica e dirigente, i “re” delle preferenze, manca non Pasetto ma ciò che hanno rappresentato quei partiti. Con tutto il rispetto, c’è gente che in quelle organizzazioni non sarebbe stata fatta entrare o al massimo avrebbe attaccato i manifesti. Rimpianti? No, quella vituperata “Prima Repubblica” ha commesso errori a non finire, però aveva una dignità e una preparazione che si sono perduti nel corso degli anni.
Ammise – e gli costò tantissimo – che chi aveva sottratto dalle edicole tutte le copie del “Granchio” che riportavano la sua vicenda giudiziaria alla vigilia del voto per la Camera del ’94, aveva commesso un errore. Ne parlammo, uscì un’intervista, e ce ne furono altre successivamente. “Devi darmi una notizia” ripetevo, ma lui continuava a partire da A, finire con Z e poi tornare indietro… Aveva studiato, era cresciuto a pane e politica, se ha commesso un errore è stato quello di stringere sempre di più la sua cerchia su Anzio, come se il tempo non fosse passato. Ci incontrammo altre volte a Roma, al Senato (“qui pago io”, disse, e risposi che visto che costava così poco poteva pure farlo una volta…) o alla sede di Teorema. Non lo sentivo da tempo, sapevo del malanno e so che in fondo in fondo mi stimava. Mi piace ricordare che tra i “portatori d’acqua” c’era mio padre, ci fosse da raccogliere voti o da cucinare alle “tre giorni” di studio che si tenevano a Piglio. Era un altro mondo, un’altra politica, e certi modi li ho sempre avversati. E’ stato meglio lasciarci, dunque, ma oggi ad Anzio finisce un’epoca come riconosciuto anche dal sindaco De Angelis e a Giorgio Pasetto va se non altro l’onore delle armi e il riconoscimento di essere stato un gigante, in un mondo (quello della politica e non solo) fatto sempre più da piccoli uomini.