Sede a due partiti di destra, ma sono in regola con gli arretrati?

La commissione straordinaria che dopo il voto del 17 e 18 novembre lascerà Anzio (ma su una determina dirigenziale è scritto che sarà il 16 e 17, refusi….) ha deliberato la “Concessione temporanea del locale sito a piazza Lavinia” usato fino a qualche tempo fa come sede distaccata della Polizia locale. A chi? Fratelli d’Italia e Noi moderati. Affidamento che scadrà il 31 dicembre prossimo – poiché è in corso il piano delle alienazioni degli edifici pubblici – ma che arriva in piena campagna elettorale. Deve essere sicuramente un caso, perché le richieste presentate da Marco Del Villano – candidato sindaco in pectore del centro-destra e presidente del circolo di Fratelli d’Italia – e da Franco Trinci, per conto di Noi moderati, risalgono rispettivamente a settembre dello scorso anno e maggio di questo. Pagheranno poche centinaia di euro fino a dicembre, la prossima amministrazione vedrà come regolarsi sulla prosecuzione o meno dei contratti.

Forse non era opportuno assegnarla ora, diciamo la verità, ma dobbiamo immaginare che il richiamo della politica abbia sempre il suo effetto. Basta vedere quante volte si è stati a fianco di un consigliere regionale spesso presente ad Anzio (Aurigemma, presidente del consiglio regionale ed esponente di spicco di Fratelli d’Italia) disertando, ad esempio, l’evento con don Ciotti.

Nell’atto si richiamano norme e pareri, com’è giusto che sia, il regolamento per l’assegnazione, ma non si fa riferimento (perché non è previsto, lo sappiamo) alle morosità che il centro-destra aveva accumulato per altre sedi.

La commissione straordinaria – che ci aspettavamo “brillasse” di più dal suo insediamento a oggi – può non saperlo. Il dirigente al patrimonio, chiamato dalla commissione, anche. Ma il “signorsì” dell’area finanziaria dovrebbe ricordare che per le sedi di via Aldobrandini le varie anime del centro-destra anziate, gli stessi personaggi ancora in quei partiti o passati da An a Futuro e libertà per l’Italia, da Forza Italia a Udc a Noi moderati alla Lega, hanno occupato quegli spazi senza pagare. Lo hanno più fatto? Perché se sono ancora morosi, si dà un pessimo segnale alla cittadinanza e si calpesta quella che mi piace chiamare legalità delle cose quotidiane. Della serie: io non pago un alloggio, la mensa, il trasporto, le lampade votive, la Tari, poi chiedo un nuovo spazio o metto un altro soggetto ed è tutto a posto. Funziona così? Ci auguriamo proprio di no.

Infine, visto che la commissione straordinaria è venuta perché il Comune è stato sciolto per condizionamento della criminalità organizzata, nella penultima udienza di Tritone il pubblico ministero Giovanni Musarò ha citato – tra gli altri – proprio l’esponente di Noi moderati che ha chiesto (e ottenuto) quella sede. Lo ha fatto perché vittima di minacce da parte di un esponente di quella che è considerata la “locale” di ‘ndrangheta. Si può non sapere quello che emerge nelle udienze, ma l’episodio delle minacce era noto dalle carte dell’indagine che la commissione certamente ha avuto modo di conoscere, così come la relazione che ha portato allo scioglimento. In sostanza, cosa è cambiato?

“Eh, ma i giornalisti…” Piccola riflessione per gli amici del baseball

Eh, ma i giornalisti italiani…” lo leggo ripetutamente, ormai, sui gruppi social che in Italia si occupano di baseball a vario titolo. È il commento all’impresa di Samuel Aldegheri, primo italiano nato e cresciuto qui a esordire come lanciatore in Major league e anche a uscire come “vincente” (foto a sinistra) da una partita. Ma lo è anche di fronte all’impresa di Ohtani, primo giocatore nella storia a battere 50 fuoricampo e rubare 50 basi nella stessa stagione.
Cosa dovrebbero fare i giornalisti? Parlare di baseball, ovviamente. Perché non lo fanno? Semplice, perché in Italia non “tira” e serve qualcosa che “faccia” notizia per scriverne. Parliamo di stampa tradizionale, sportiva e non, attenzione, perché quella specializzata su internet segue puntualmente le vicende del batti e corri nostrano come lo fanno tanti media locali, nelle poche roccaforti rimaste di questo sport in certe zone del Paese. E lo fanno con fatica, garantito, come vedremo tra breve.
Nella mia esperienza al Messaggero il baseball ha trovato ampio spazio sullo sport nazionale in occasione del World baseball classic del 2006 (si veda immagine sotto).

Poi quando Alex Liddi (nel 2011, cinque anni dopo, foto sotto) ha esordito in Major, alla presentazione al Coni della spedizione al Classic 2013, ora con Aldegheri, poco prima quando Mike Piazza (preceduto più dalla sua fama che dall’essere manager della Nazionale) è stato ospite in redazione. L’Italia aveva avuto spazio adeguato vincendo l’Europeo 2012, si era parlato di baseball per lo stadio nella Capitale che è una storia infinita come e peggio di quello della Roma calcio o, adesso, per il recupero del Flaminio.

Poco, direte, vero? “Eh, ma i giornalisti….”
Se riflettiamo, però, si è trattato di avvenimenti eccezionali, per chi mastica un po’ di informazione di vicende che “fanno” notizia .
Chiediamoci allora, perché in Italia il baseball non la “fa”? Semplice, perché non attira. Una federazione che oscilla tra i 20 e i 22.000 tesserati, ad esempio. Partite che tutto sono fuorché spettacolari e che quando va bene vedono 800 persone ad assistere agli incontri (sono i dati della serie finale tra Parma e San Marino). Normalmente, invece, alla voce “attendance” sui tabellini della Fibs appaiono meno presenti di una riunione di condominio di un palazzo di medie dimensioni. Vogliamo parlare delle strutture? Ci vogliamo bene, amiamo il baseball e passiamo su tutto ma trovate un impianto accogliente in Italia? Manco da un po’, dico la verità, ma quei pochi che conosco non lo sono affatto. Se poi aggiungiamo che la Nazionale maggiore non brilla in Europa e che quando andiamo al Classic (e facciamo bella figura) qualche benpensante storce ancora il naso perché “non ci sono gli italiani” ignorando che è una vetrina unica al mondo beh, ci facciamo male da soli. E ce lo facciamo quando si polemizza, basta avvicinarsi a un campo di gioco delle giovanili, sulle convocazioni nelle Nazionali minori o nelle selezioni regionali. Chi frequenta l’ambiente più di me, sa di cosa parlo.
Chi dovrebbe occuparsi di baseball, dal punto di vista mediatico, con queste premesse? E perché? I colleghi dell’ufficio comunicazione Fibs fanno un lavoro egregio con il materiale che mette a disposizione un campionato scarso, la squadra di baseball.it della quale mi onoro di far parte riesce – con spirito volontario – a garantire una copertura degna di tale nome da oltre 25 anni. Sul resto serviva (e serve) una politica di promozione che non c’è stata (mi viene il paragone con il boom del rugby che ha pure cominciato a vincere al Sei Nazioni, dopo anni di batoste), come la crescita del movimento frutto di una visione che evidentemente è mancata. Facciamoci una domanda se dall’atletica al tennis – che non stavano meglio del baseball 10 anni fa – tutti si affermano, se nuoto e volley hanno proseguito la loro affermazione e qui per fortuna abbiamo almeno Aldegheri…. Ripetiamo la domanda: chi dovrebbe occuparsi di seguire il baseball, allora? Gli appassionati, come chi scrive e pochi altri. Poi lunga vita a Mario Salvini e al suo blog che ci regala perle quasi quotidianamente.

E guardate che non è facile seguire il campionato italiano (già capirne la formula, così per dire), provare ad approfondire, andare oltre il “copia e incolla” che vorrebbero alcune società che scrivono comunicati chilometrici. C’è tanta buona volontà e – permettete – spesso poca professionalità. Non è un caso che nel piano per realizzare in Italia le franchigie della Major league baseball – progetto dell’allora presidente Riccardo Fraccari, abortito purtroppo prima di iniziare – ci fosse una voce specifica per pagare chi si occupasse di comunicazione in ogni team. La reazione della grande maggioranza delle società italiane fu quasi di sdegno. Qualche dirigente ebbe a dire “ma allora mi stipendio io”. Chi c’era ricorderà.

Questo era ed è l’atteggiamento di chi, giustamente, ricorda i sacrifici che fa per mandare avanti le squadre ma poi si lamenta di tutto il resto. A cominciare da chi, secondo lui, dovrebbe raccontare qualcosa che non “fa” notizia, non ha lo stesso “appeal” di altre discipline, ha fatto poco o nulla per crescere in questi anni.

Infine, la “disintermediazione” ovvero l’uso dei social che consente a chi ha un proprio canale di comunicazione di bypassare i media tradizionali perché “eh ma tanto i giornalisti…“. Liberissimi, per carità, ma nessuno si lamenti se poi il nostro amato sport resta alle chiacchiere tra di noi.

Si torna al voto, i 30 anni di bugie che ci precedono. A futura memoria

La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso
Francesco De Gregori

Tra gli insegnamenti che Giampaolo Pansa forniva a chi voleva fare questo mestiere, c’era quello di avere un buon archivio. Non esistevano i computer di oggi, internet era usato solo a fini militari, chi scrive queste righe aveva il sogno di fare il giornalista. E così applicava alla lettera le indicazioni del grande giornalista, allora a “Repubblica”.

Ora che ad Anzio si torna a votare, dopo l’onta del commissariamento per condizionamento della criminalità organizzata, quell’insegnamento torna utile per questa pubblicazione che per buona parte nasce dall’aver conservato del materiale in occasione del voto amministrativo.

Sono passati circa 30 anni dalla prima elezione diretta del sindaco, la popolazione è cresciuta a dismisura (i residenti erano 35.889 nel 1995, sono 59.335 all’1 gennaio scorso), la tecnologia ha fatto passi da gigante, ma senza tema di smentita i personaggi che hanno guidato la città sono stati praticamente sempre gli stessi.

Come le proposte inserite nei programmi, inizialmente non obbligatorie, e dal decreto legislativo 267 del 2000 da allegare alle candidature.

Le pagine che seguono non hanno pretese diverse da quelle documentali, far sapere chi ha vinto, cosa proponeva, chi erano le giunte e i consigli comunali, cosa ha fatto o non, i fallimenti.

È materiale a disposizione di chi avrà la bontà di sfogliare, perché no stampare e conservare, di chi sarà curioso di sapere quante volte e con chi è stato eletto Tizio piuttosto che Caio.

Un primo dato che balza agli occhi è l’affluenza alle urne che ha avuto il picco nel ’95 (85,59%), è calata lievemente fino al 2008 quando è risalita fino all’83,71% fino a crollare sei anni fa al 54,22%

A proposito del 2018, chi scrive ha avuto l’ardire di candidarsi sindaco (Pd e civica #unaltracittà) perdendo sonoramente e assumendosene la responsabilità. L’unica “divagazione” di questo documento rispetto ai programmi e ai risultati elettorali, sarà l’appendice con il solo discorso pronunciato in consiglio comunale. C’erano tutti gli elementi che hanno portato allo scioglimento, ma è un dettaglio. Si era e si resta convinti che quando i cittadini scelgono, hanno sempre ragione. Nelle pagine che seguono si vedrà come hanno scelto e chi, perché riprendendo la frase del “Principe” Francesco De Gregori: la storia siamo noi, nessuno si senta escluso.

Buona lettura, per chi vorrà.

De Masi, un anno dopo. Il ricordo e l’insegnamento che resta

È trascorso un anno e tante cose tornano alla mente. Come quella volta in cui gli dissi che ero candidato sindaco ad Anzio e chiese “ce la fai?” Risposi “difficile professore” e lui “ma se ce la fai cercami”. Andò male, però pensate: avremmo avuto lui al posto di qualche “solito noto”, buono per ogni stagione.

Domenico De Masi ci ha lasciato un anno fa. Non l’ho mai chiamato Mimmo, non c’è mai stata la confidenza che ha avuto con altri – anche del mio corso all’università – ma quando ho potuto sono sempre andato dove fosse per un evento. Di lui ripeto, orgoglioso, in ogni dove “è stato il mio professore, il relatore della mia tesi”. Ma ci pensate? Cercare la creatività in un ambiente burocratico. Quando glielo proposi, ormai più di 30 anni fa, rispose con il suo caratteristico “è bellissimo” (e sembra di sentirlo ancora), i suoi detrattori (e c’erano alla “Sapienza”, come se c’erano….) mi dissero che tanto non le leggeva le tesi. Invece potrei citare a memoria quello che disse davanti alla commissione, avendola letta eccome. C’erano i detrattori perché De Masi era avanti, la rivista dell’Associazione italiana formatori nel numero “L’eredità di un maestro” ospita un articolo di Antonella Calvaruso che lo cita come “esempio di innovazione”. Guardava oltre, era di una curiosità innata e al tempo stesso di un rigore scientifico senza pari. Ci invitava, da ultimo me la sono “rivenduta” con gli studenti che hanno seguito la mia docenza a contratto a Genova nel corso di Informazione ed editoria, a “vivere e studiare per sputtanare i millantatori di cultura”.

Quanti ne girano, oggi più di allora, caro professore.

Come ho avuto modo di scrivere sul Messaggero quando ha lasciato questo mondo, seguire le sue lezioni era qualcosa di unico, mai un rapporto subordinato docente-discente ma l’invito a ragionare, gli spunti sui quali riflettere, la ripetizione quasi ossessiva del “non so se è chiaro”. Perché se non lo era, potevi chiedere e avresti ricevuto risposta.

Quando ci siamo trovati a parlare dei suoi insegnamenti, noi di quei gruppi di studio che bene o male abbiamo mantenuto rapporti dopo l’università, su una cosa abbiamo concordato: senza le sue ricerche, assegnate a inizio anno accademico e valutate alla fine quando dovevi presentare il lavoro (quante nottate trascorse….) il nostro approccio alle professioni diverse che poi abbiamo svolto non sarebbe stato lo stesso. Lì abbiamo imparato come si fa ricerca sociale. Lì abbiamo appreso un metodo. Ignoro se abbiamo “sputtanato” qualcuno, sono certo che ci abbiamo messo il rigore necessario nell’effettuare quelle ricerche e poi nel lavoro che abbiamo svolto nella vita.

Perché – come si legge ne “L’emozione e la regola” che è un testo da consigliare ancora oggi, universalmente – può esserci chi in un gruppo creativo non ha regole se non partecipare alla riunione a una data ora di un determinato giorno e chi, invece, ha regole talmente ferree che però non gli impediscono di “creare”. Tradotto, l’approccio che ci ha dato De Masi ce lo portiamo ancora dietro in molti, ne sono certo.

Lui era andato oltre, era “oltre”: dal paradigma della società post industriale ci aveva portato fino all’ozio creativo, tra i primi aveva capito l’importanza del telelavoro (e oggi sullo smart working gli direi che non sono proprio d’accordo) del tempo libero, delle professioni che non hanno più orari ferrei – neanche in ambienti burocratici – della necessità di investire in innovazione e cultura. Intervenne a un convegno di Federlazio al Palacultura di Latina, anni fa, nella sala conferenze ovviamente stracolma. L’argomento, manco a dirlo, era la famigerata autostrada Roma-Latina che gli imprenditori vedevano (e vedono) come un toccasana. Da allora siamo passati da internet delle cose a quello delle persone, dai primi rudimentali telefoni cellulari al 5G, quella strada se e quando sarà realizzata sarà già vecchia. Lui semplicemente aveva messo in guardia su questo, dando una visione diversa. Poi certo, le merci devi trasportarle ugualmente, ma intanto certi imprenditori che continuano a piangersi addosso e chiedere provvidenze statali alla prima crisi, a innovare non ci hanno pensato.

Forse perché hanno visto sempre di traverso la Sociologia e ancora peggio quella del lavoro che De Masi ha istituzionalizzato in Italia, prima di essere anche preside di Scienze della Comunicazione. Perché chi pensa, analizza la realtà, fa ricerca sociale, indica una via alternativa, non è mai così ben accetto. Volete mettere gli ingegneri e le loro formule così precise?

E la cultura? Lui che era stato assessore a Ravello e ne è diventato cittadino onorario, aveva seguito e fatto realizzare l’Auditorium Oscar Niemeyer, fatto del festival un evento unico al mondo, ci aveva portato a comprendere che tanto del “tempo libero” può e deve essere trascorso così. Tornando all’aneddoto iniziale, quello della candidatura, non è un caso che citassi Ravello nel programma di #unaltracittà

Perché, questo è uno dei tanti insegnamenti che ci ha lasciato, devi pensare in grande. E continuare a “vivere e studiare per….” Va be’, lo sapete. Grazie ancora, professore.