La signora con il tumore, costretta a pagarsi la colonscopia

Non entravo all’ospedale “Santa Maria Goretti” di Latina da tempo, ieri ci sono andato da paziente, per una visita programmata . Nei poliambulatori al di sotto di malattie infettive eravamo io e una signora: minuta, occhi chiari, tanta voglia di raccontare di sé, dei suoi malanni e dei disagi che affronta. La chiamerò Cristina e nei giorni delle polemiche sulle liste d’attesa o della prosopopea sugli “Stati generali della salute” mi va di raccontare la sua storia.

Perché è una di quelle – tante, tantissime – che i giornali hanno “dimenticato” di seguire, presi come sono dai diktat di chi comanda che preferisce le veline alla vita reale. Non mi stupisce, è un mondo nel quale ho vissuto a lungo e so come funzionano certe cose. Però le storie come quella di Cristina “fanno” ancora notizia e qualcuno dovrebbe continuare a preoccuparsene, per rispetto della professione che facciamo.

Ci provo io, sommessamente. La signora in questione grazie alle prevenzione ha scoperto anni fa un tumore al seno, è stata operata e segue regolarmente lo screening. Nel frattempo un altro tumore è comparso, stavolta al colon, quasi per caso come mi ha raccontato lei, facendo accertamenti per un’altra patologia (“non mi faccio mancare niente”). Anche in questo caso, è stata operata e le sono stati prescritti esami diagnostici di controllo. Nello specifico la colonscopia che deve eseguire con calma, entro un anno. “Però non c’è posto, non me la prenotano, così sono costretta a pagarla”. Sì, avete capito bene. Una donna operata di tumore, con il famigerato codice 048, costretta a pagare la colonscopia di controllo.

Mentre i direttori generali e sanitari delle Asl ripetono come un mantra che è necessaria la “presa in carico” dei pazienti, quelli fragili in particolare o con comorbidità, Cristina deve trovare per conto proprio un centro dove fare la colonscopia e pagarsela. Non è questione di Rocca o di Zingaretti che l’ha preceduto, attenzione, ma di civiltà. Quella che la politica e i supermanager che nomina, hanno dimenticato. Una normale “presa in carico” dovrebbe prevedere che la struttura alla quale la donna è affidata, le programmi e prenoti direttamente l’esame. Invece no, una cittadina malata di tumore deve fare il giro delle sette chiese e pagarsi pure la prestazione.

Direte “ma credi a quello che ti ha raccontato”? Sì, ma ho pure verificato ed è la stessa regione nel suo “Monitoraggio sui tempi di attesa” (aggiornato al 27 agosto, mentre scrivo è il 19 novembre 2025) a riconoscere che l’indice per la colonscopia è pari a 55. Il che significa che la prima prestazione utile entro l’anno, Cristina la può anche ottenere ma non a Latina (indice 49,7, quindi attesa ancora più lunga rispetto alla Regione).

E se è una donna sola che non guida più come un tempo? Cerca una soluzione vicino casa e paga. Per dovere di cronaca è giusto dire che la stessa prestazione, tenendo conto dell’offerta in tutto il Lazio ha un indice di 80 se urgente (sono quelle che possono prenotare direttamente i medici e vanno eseguite nell’arco di 72 ore), scende a 55,4 se breve (da fare entro 10 giorni), a 52,4 se differibile (entro 60 giorni) e risale a 59,3 se programmata ovvero da eseguire entro 120 giorni.

E questa storia della colonscopia apre un’altra pagina. La collega Linda Di Benedetto ha scritto sul Fatto Quotidiano che la Regione Lazio fornirebbe dati alterati rispetto alle liste d’attesa. Il presidente Rocca si è difeso, sostenendo di essere nel giusto.

In realtà basta recarsi a uno sportello Cup o telefonare al Centro unico di prenotazione per scoprire che le cose stanno in questo modo innegabile e beffardo: il paziente di Anzio ha una prescrizione con priorità B. Chiama e in un ambulatorio vicino casa non c’è posto, può spostarsi e chiede per altri centri nel raggio di una trentina di chilometri (Aprilia, Latina) o magari Roma dove può andare in treno ma entro 10 giorni non c’è posto. Anzi sì, a Cassino o Viterbo. Risultato? Il paziente dice “no grazie”, il sistema regionale di prenotazioni dice “ok, ma io entro 10 giorni te l’avevo garantita e sei tu che hai rifiutato”. Con la conseguenza che il paziente si rivolge al privato e la Regione dice di rispettare i tempi.

Qualcuno lo spieghi a Cristina e a quanti, come lei, si sentono presi in giro quando gli si racconta che sulle liste d’attesa è tutto a posto. Ripeto, non ne faccio e non ne ho mai fatto una questione di chi guida la Regione ma di onestà intellettuale.

Infine, per la medesima onestà, è giusto dire che le liste sono solo uno dei problemi e che se domani mattina apriamo un servizio, tra una settimana le attese si creano. Questo non vale, però, per le situazioni come quella di Cristina e di tanti altri. Non può e non deve valere.

Addio a Emmanuel Miraglia, un “faro” nella sanità e quell’abbraccio paterno…

Ho fatto come lui, ho preferito aspettare. Lo chiamavi per sapere dell’accordo con Regione, Università e Asl finalmente raggiunto ma rispondeva “non è il momento”. Sul “taglio” potenziale di alcuni posti letto… “meglio aspettare” e via di questo passo. Lo faceva ogni volta, non prima di essersi complimentato perché avevo saputo e avevo tutti gli elementi a disposizione.

Avrei potuto scrivere, ma senza la posizione di Emmanuel Miraglia – presidente del Gruppo Giomi scomparso una settimana fa – non sarebbe stata la stessa cosa. Perché averla, una sua dichiarazione, era un valore aggiunto. Alcune cose uscivano lo stesso, “off record” come diciamo nel nostro mondo, ti dava conferme o indicazioni importanti. Avere la sua fiducia, per chi fa la nostra professione, non era semplice. Anzi.

La sua scomparsa mi ha profondamente addolorato, perché come in molti casi della vita da uno scontro nasce poi un rapporto sincero e leale. Con lui, posso dirlo, un’amicizia. Molti hanno ricordato l’imprenditore illuminato ed Emmanuel era certamente un “faro” nel mondo della sanità (“basta con questa storia dei privati, diamo un servizio pubblico fondamentale”), hanno sottolineato i suoi successi, ricordato che chiedeva amore e passione in tutto ciò che si faceva. A me piace sottolineare degli episodi, l’ultimo qualche settimana fa…. “Bravo, non mi hai invitato alla cerimonia delle borse di studio….” e lui “ma sei un uomo ormai troppo impegnato per queste cose…”.

Era iniziata male, tanti anni fa, lavoravo a Latina Oggi e un’indagine della Finanza riguardava l’Icot. Ne scrissi, se la prese, andai in istituto e trovai il “gotha” ad attendermi. Io, giovane cronista, e lui che incuteva un certo timore, il professor Pasquali Lasagni, altri dirigenti. Non alzò la voce (e non glie l’ho mai sentita alzare) ma spiegò con fermezza le sue ragioni, poi “però la prossima volta chiama prima…” Quell’inchiesta finì in una bolla di sapone, ma da quel giorno ci sentivamo ogni volta che si ponesse un problema relativo all’istituto o al gruppo o quando avevo da chiedere consiglio su alcune vicende sanitarie singolari. Quando chiamava, invece, la notizia era assicurata. Come l’unica volta che lo vidi in una certa difficoltà, lui sempre tutto di un pezzo e apparentemente algido: “Giovanni, quest’anno per la prima volta non faremo assunzioni stagionali durante le ferie, non ne abbiamo la possibilità”. Non ricordo quanti anni sono passati, ma era un momento di crisi, dovuto al fatto che la Regione non erogava i fondi e l’azienda, la “sua” creatura, viveva un momento difficile “Però, ricorda, noi non abbiamo mai cacciato nessuno”. Ed era vero, verissimo. Così come la sua lungimiranza ha portato all’intesa con La Sapienza, alla realizzazione di uno dei primi “hospice” a Latina, alla Rsa. Perché puoi nascere come istituto ortopedico, ma l’evoluzione delle tecniche riduce i tempi di intervento e quelli di degenza, così devi necessariamente riconvertire. Nel periodo Covid le sale operatorie dell’Icot sono state a disposizione del “Goretti” da un giorno all’altro e pazienza se sui conti, forse ancora oggi, non si trova la “quadra”. Da Latina al resto del gruppo, invece, i rapporti con la Cina, quelli con la Germania, le Rsa che diventano anche luogo di vacanza, gli istituti d’eccellenza anche a Cortina e Firenze, la nutraceutica e chi più ne ha, ne metta.

Dicevo del nostro rapporto, però, ad esempio di quando gli dissi che mi sarei candidato sindaco ad Anzio e rispose “sei matto, però chi ci mette la faccia in una situazione difficile ha tutta la mia stima”, poi ridendo “ah ma quella per te ce l’avevo già prima”. I complimenti per la seconda laurea, in comunicazione scientifica e biomedica? “Ora sì che sei proprio sua sanità”, quindi l’abbraccio quando da Latina andai a Frosinone per il Messaggero (“ma continua a seguirci”), la recente scelta di lasciare il giornale, i libri sul sangue e le aggressioni ai medici, le chiacchierate su un mondo dell’informazione radicalmente cambiato, i consigli di fronte ad alcune vicende con la Regione. Emmanuel è stato un “faro” nel mondo della sanità, certamente, ma per chi lo immaginava distaccato, freddo, calcolatore, c’è un episodio su tutti che mi piace citare: Expo di Milano 2015, giornalisti invitati per l’incontro sul distretto sanitario del basso Lazio che Unindustria presentava proprio lì. A farlo era Fabio, uno dei figli, allora presidente dell’associazione degli industriali a Latina, il quale evidentemente “sentiva” quel momento. Emmanuel aveva capito, così fece gli ultimi passi verso la sala della presentazione prendendolo sottobraccio, con affetto, paternamente. Ecco, a me piace ricordare quel gesto per riassumere chi fosse, con il cruccio – adesso – di non poter fare quell’incontro che ci eravamo promessi ad Anzio.

Abbraccio ancora forte Fabio e Massimo, i figli con i quali ho più avuto a che fare per ragioni di lavoro, tutti gli altri familiari e idealmente l’intera famiglia del gruppo Giomi che ha perduto – come il resto del mondo della sanità – una persona illuminata. Io, un amico sincero.

“Prendersi cura”, lo straordinario esempio di Gianna

C’è un concetto che in sanità ormai è di uso comune, quello del “prendersi cura”. Se vogliamo “farsi carico”, più ancora essere empatici. Sono tutte caratteristiche che Gianna Sangiorgi aveva e che nella sua vita ha messo a servizio degli altri. A partire dai più deboli.

Lo ha fatto quando certi termini erano ben lontani dall’uso comune tra chi si occupa di salute. Lo ha fatto mettendosi a disposizione, dalla “prima linea” del Tribunale per i diritti del malato. Lo aveva aperto e ne è stata l’anima fino all’ultimo, con una capacità di comprendere le ragioni di chi denunciava e di andare a sollecitare delle soluzioni che sembrava innata.

Difficilmente la sentivi parlare di “malasanità”, ma guai a non dar retta alle sue segnalazioni. Ne sanno qualcosa al vertice del “Goretti” e a quello della Asl di Latina. Ne so qualcosa io, se tardavo a scrivere una sua segnalazione. Non mollava, fino a quando arrivava una risposta. Fino a quando non le spiegavano, ad esempio, il motivo perché la Tac andava in pronto soccorso anziché in radiologia o la nuova risonanza era diversa da quella che si attendeva. Finché non pubblicavo ciò che mi aveva raccontato, del quale potevo fidarmi ciecamente.

“Ah, oggi passi perché non hai trovato niente…” diceva con un sorriso se mi affacciavo nel suo ufficio (che fatica per ottenerlo) al piano terra dell’ospedale. E lì mi raccontava a cosa stava lavorando, al rapporto in preparazione di Cittadinanzattiva, ai primi dati che emergevano sapendo che poteva fidarsi anche lei, non li avrei “bruciati”. Aveva portato il suo metodo e la sua testardaggine anche nell’esperienza di Latina bene comune.

Aveva in qualche modo collaborato con i miei libri, fornendo spunti interessanti (grazie ancora, davvero), non era potuta venire alla presentazione dell’ultimo sulle aggressioni ai medici ed eravamo rimasti per un’altra occasione. Quando l’1 febbraio le avevo fatto gli auguri per i suoi 75 anni mi aveva “cazziato” perché andando via da Frosinone non le avevo ancora dato il contatto che le serviva per un altro dei suoi dossier sugli ospedali.

Lo avevo fatto, scusandomi, e ci eravamo fatti ancora una risata. “Aho – mi aveva detto – ora vai a riposarti al Comune” e io avevo risposto: “Basta che non trovo chi è capace a fare contestazioni come te”. Purtroppo è stata l’ultima tra di noi ed è un gran peccato.

La sanità pontina (e non solo) perde una colonna portante, i malati e i loro familiari ancora di più. Perde Gianna, un esempio straordinario di sapersi “prendere cura”.

La sanità (semplice) di cui avremmo bisogno

I colleghi buontemponi mi hanno affidato, da tempo, il soprannome di “sua sanità”. Seguo da anni questo settore, è vero, ho imparato che se vuoi scrivere di malasanità fai presto, ma che per trattare un argomento delicato come quello della salute e del mondo che vi ruota intorno ci vuole tempo e pazienza. Per il ruolo di “sua sanità” capita spesso che qualcuno mi chiami in nome dell’italico vizio del voler trovare una soluzione senza passare dalla porta principale ovvero della necessità di avere risposte che altrove non trova, come vedremo dopo questa doverosa premessa. Così “vedi se si può fare qualcosa per anticipare questa tac” ovvero “ma conosci nessuno che mi fa al volo questa visita” e chi più ne ha, ne metta. A tutti rispondo sempre che per prima cosa occorre provare con la via ufficiale: chiamare il centro unico di prenotazione, andare allo sportello, lì magari la soluzione c’è. Ma prima ancora che va verificato cosa ha scritto il medico sulla prescrizione. Esistono dei codici, infatti, che indicano la priorità di ciò che si deve fare. U sta per urgente  con attesa massima di 72 ore; B per breve, con attesa massima 10 giorni; D è differibile, vuole dire che l’attesa può essere massimo 30 giorni per le visite e 60 per le prestazioni diagnostico strumentali; P, infine, programmabile, si può arrivare ad avere la prestazione entro 120 giorni. C’è un ulteriore strumento, quello dei medici di base, i quali hanno un numero dedicato con il quale in caso di prestazioni urgentissime hanno la possibilità di prenotare direttamente per i loro pazienti. Ignoro se l’attuale presidente della Regione, Francesco Rocca, il suo predecessore Zingaretti, l’ex assessore D’Amato e tutti coloro che li hanno preceduti alla guida del Lazio o sono stati in Consiglio regionale (maggioranza e opposizione) abbiano mai chiamato il centro di prenotazione. Forse si accontentano di aver messo in piedi il monitoraggio delle liste d’attesa o di promettere, ogni volta, che le abbatteranno. Attenzione: le liste, di per sé, sono un falso problema. Perché è noto che più fornisci una prestazione, più te ne chiedono. Qual è allora il problema? Garantire il rispetto dei tempi, a seconda delle priorità. Ebbene, così non è.

Qualche esempio pratico, capitatomi di recente: tumore accertato, il medico di base chiama il numero dedicato ma non c’è posto (sic!) per una Tac “total body” che deve verificare se ci siano già metastasi. La prima disponibilità nel Lazio è a novembre – il tumore ringrazia…. – ma pagando fra qualche giorno è possibile farla in una struttura privata-accreditata. Una di quelle che nessun vertice della Regione, finora, è riuscito a inserire nel programma per la prenotazione di visite. Le “agende” dei privati accreditati non sono accessibili al Cup e dubitiamo voglia renderle tali Rocca. Anche perché per ragioni di budget possono fornire un numero di prestazioni al mese e non più e spesso all’inizio di ciascun periodo si “esauriscono” i posti. E’ così anche nei centri analisi, per esempio.

Ecografia addome completo di controllo, assolutamente programmabile, lo specialista dice a gennaio di farla “tra sei sette mesi”. A giugno provi a prenotare. Prima disponibilità? Luglio 2024, come si vede dalla foto di questo spazio. La fai privata (e chi non può pagare?) e si scopre che qualche problema, per fortuna risolvibile, c’è. Ad aspettare luglio del prossimo anno, si sarebbe certamente acuito.

Rocca, ma prima di lui Zingaretti e D’Amato, ma anche chi li ha preceduti, sanno quanti posti ci sono per le visite a coloro che debbono riprendere la patente dopo essere stati fermati per guida in stato di ebbrezza? Pochi o niente e se provi a Colleferro forse fai prima che alla Asl Roma 2, ma non è detto. Dirai e va be’, ma quelli hanno sbagliato….

D’accordo, vogliamo provare una gastroscopia con biopsia? Un annetto e passa la paura, se va bene. Ah, non andate allo sportello Cup del “Goretti” di Latina dopo le 16. Sì, è aperto dalle 8 alle 18 ma nelle ultime due ore puoi solo pagare prestazioni da fare in giornata…. E’ così anche altrove, garantito. Si potrebbe chiedere il rimborso delle spese sostenute per visite o esami non eseguiti nei tempi previsti, ma pochi lo sanno, ancor meno lo fanno, anche perché è peggio di aspettare una visita: passano anni. Ma provate a fare un intervento di “elezione”, cioè programmabile, in un ospedale pubblico. Urgenze e tumori garantiti, non si può fare altrimenti, il resto aspetta o se può andare altrove va (e la “mobilità passiva” delle Asl aumenta), se può pagare anche.

LA PRESA IN CARICO

Ci hanno fatto una testa tanto con le “Case della salute” oggi future di “Comunità” insieme a ospedali che si chiameranno allo stesso modo e riempiono i programmi di investimenti del Pnrr. Modello bellissimo ma al momento vuoto. Se, come è capitato, una persona con grave Bpco – broncopneumatia cronico ostruttiva – non può muoversi da casa e deve rinnovare il piano terapeutico per avere l’ossigeno, lo pneumologo a domicilio non c’è… Succedeva – e temo succeda ancora – alla Roma 6 per il distretto di Anzio-Nettuno. Ci sono prestazioni per le quali i pazienti non dovrebbero fare il giro delle sette chiese ma essere, appunto, “presi in carico” come tanti manager delle Asl ci ricordano da anni. Inutile. Li vedete due anziani signori che escono dagli ambulatori del “Goretti” con la ricetta rossa in mano, entrano alla porta a fianco del Cup ma sono passate le 16 e non possono prenotare la visita di ritorno? “Venga domani”. Ma non vi vergognate nemmeno un po’? E’ cosa di tutti i giorni, non solo lì. E basterebbe poco, dovrebbero avere visite e ritorni programmati se sono – come capita spesso – cronici e multiproblematici. C’era un bel progetto, “+Vita, ci pensa la Asl no te” ma pare sia miseramente tramontato.

I PRONTO SOCCORSO

Medici di famiglia, poi case e ospedali di comunità dovrebbero essere quel “filtro” sul territorio che evita di andare in ospedale anche per cose banali o, meglio, non tali da richiedere un dipartimento di emergenza. Oggi i pronto soccorso sono pieni di persone che non hanno urgenze, ma non sanno dove sbattere la testa. Il famoso “territorio” è un altro degli slogan cari ad assessori e direttori generali, ma nei fatti spesso non esiste, così come si fatica a far funzionare i Pdta cioè i percorsi diagnostico terapeutico assistenziali che la “presa in carico” dovrebbero attuarla senza se e senza ma. A ciò si aggiunga che pure i casi gravi – altro esempio di qualche giorno fa, ospedale di Anzio – non trovano posto nei reparti e trascorrono 48 ore su una barella in pronto soccorso. Sarebbe successo lo stesso in un altro dipartimento di emergenza, perché siamo in estate, il “territorio” già carente scompare o quasi, gli accessi si moltiplicano, i posti letto sono sempre quelli se non meno.

Sulle ragioni di queste carenze servirebbero anni di dibattito. Le responsabilità politiche, anzitutto, di cercare consensi attraverso incarichi da assegnare e di non avere una visione reale delle esigenze dei pazienti ma chiarissima degli imprenditori del settore. Quelle dell’Ordine dei medici che chiedeva di non iscriversi a medicina, il numero chiuso che è una risposta al fatto che non ci sono posti di specializzazione per tutti. E sarà un caso che “sua sanità”, cioè chi scrive, conosca quasi più infermieri che lavorano in ufficio di quelli che sono in corsia?

LE PASSERELLE

Di recente al “Goretti” di Latina è stata inaugurata la nuova unità di terapia intensiva coronarica. Un’eccellenza nazionale già prima del taglio del nastro. Come accadeva con i passati presidenti di Regione, anche Rocca ha avuto il suo codazzo, amplificato da selfie e dichiarazioni solenni ben ricostruiti da Lidano Grassucci. Peccato che nel giro di 48 ore si fossero rotte tutte le Tac e che i pazienti fossero dirottati a Terracina (quante battaglie per farla rimettere al suo posto e meno male che è rimasta….) per le urgenze. Il presidente ignorava o gli è stato evitato di sapere che a pochi metri dall’Utic c’erano macchinari fuori uso.

Se andiamo a rileggere “Dichiarazia” di Mario Portanova (Rizzoli, 2009) potremmo prendere le frasi di chi da destra guida oggi la Regione e ha la “filiera” in provincia e confrontarle con quelle di chi, invece, la guidava da sinistra. Troveremmo le stesse identiche frasi: “La Regione con noi alla guida investe”, “Rilanciamo l’ospedale” e via di questo passo. Ci sono stati per alcuni servizi praticamente più nastri tagliati che prestazioni. Peccato siano gli stessi politici che per difendere qualche consenso – e non certo i pazienti – inventino come è stato in passato Uoc o Uos “inutili” o quasi, chiedano di tenere aperte strutture spesso inutili, senza una “visione” di ciò che dovrebbe essere una sanità moderna.

Basterebbe farla semplice, come si è provato a raccontare qui, perché come cantava Lucio Dalla “la cosa eccezionale, dammi retta, è essere normale”. Peccato che di eccezionale si veda ben poco…

“A peggio de noi!”. Ciao Avvocato, quante battaglie

Mario Mammola (foto da http://www.ilgranchio.it)

Se oggi Villa Albani svolge ancora una funzione per gli handicappati gravi e gravissimi lo dobbiamo a Mario Mammola, al secolo “l’Avvocato” ed Alvaro Del Vecchio. Lo ricorda bene “Il Granchio” che insieme ai due strenui difensori dell’ospedale ha seguito tutte quelle battaglie. Non c’erano i selfie, i social, sì e no vecchi ciclostile e primi computer, macchine da scrivere e telefoni a gettoni. Si incatenarono, Mario e Alvaro, affinché non venisse smantellato quell’ospedale. Affinché non venisse meno il ruolo che aveva avuto per disabili come i loro figli. Per quel diritto alla salute che oggi – con l'”Avvocato” che ci lascia – dovrebbe far fischiare le orecchie al direttore generale della Asl, Narciso Mostarda, e al suo arrampicarsi sugli specchi rispetto all’ospedale di Anzio.

Mario e Alvaro hanno difeso quel diritto che non era semplicemente dei loro figli, non lo avrebbero fatto solo per loro, ma di una comunità intera. Ma l'”Avvocato” non era solo la battaglia per Villa Albani, era l’amore per la sua Anzio. Per il calcio e per il baseball. La passione per lo sport e mai una parola fuori posto, verso gli avversari, ai quali male che andasse riservava un epiteto che era “a peggio de noi! Sete peggio de noi!

Ciao Mario, forse in quelle battaglie siamo stati “peggio de te”, ma è stato bello condividerle. Qualcuno, alla Asl e in Comune, dovrebbe ricordarselo e magari intitolare anche solo una sala di Villa Albani a te e Alvaro.

Ospedale e sanità, il modello al quale puntiamo

C’è un punto che va chiarito subito: in materia di programmazione sanitaria i consigli comunali, congiunti o meno, possono dare al sindaco una indicazione e questi ha il dovere di portarla alla conferenza locale sulla sanità e tentare di farla inserire nell’atto aziendale. Funziona così, chi dice altro prende in giro i cittadini. La grande attenzione di questi giorni “elettorali” per le sorti dell’ospedale di Anzio-Nettuno conferma che alla “politica” di casa nostra piace, evidentemente, giocare.

Quello che la Asl – e la Regione Lazio – dovevano decidere per il “Riuniti” è avvenuto nel 2014, con la conferenza dei sindaci che all’unanimità ha approvato la riorganizzazione allora proposta dal direttore generale Fabrizio D’Alba. Ignoro se ci fosse Bruschini, a quella conferenza, o se avesse delegato l’assessore alla sanità Placidi sperando di poter dire poi che lui, il sindaco, “non sapeva“. Ma l’atto pubblicato sul bollettino ufficiale della Regione Lazio nel 2015 è chiarissimo.

Ecco, questo è il passato che speriamo di lasciare alle spalle definitivamente, tra qualche mese.  Per ciò è bene indicare qual è l’idea che abbiamo e che porteremo all’attenzione della Asl se dovesse toccarci l’onore e l’onere di guidare la città. Non gridiamo “l’ospedale chiude…” perché non è così. Neanche uno scriteriato chiuderebbe una struttura che serve un bacino d’utenza come quello di Anzio-Nettuno che raddoppia se non triplica le presenze d’estate. Stiamo assistendo, però, a un progressivo e inaccettabile depotenziamento. Soprattutto se non c’è una risposta adeguata che riguarda la presa in carico dei pazienti – a partire dai cronici – sul territorio.

Questo è il paradigma che dobbiamo rovesciare. Un ospedale come quello di Anzio-Nettuno deve garantire un pronto soccorso efficiente (e la Asl il personale necessario), cardiologia e chirurgia d’urgenza, punto nascita, traumatologia, tutto ciò che riguarda i pazienti “acuti“. Deve essere quello che in gergo è definito uno “spoke” e se ci sono casi gravi deve avere un “hub” di riferimento. E’ già in larga misura così, il modello dei “raggi” e del “mozzo” è realtà non nel Lazio, ma in Italia e nel mondo ormai. Chi difende un singolo posto letto o un reparto con sopra il suo nome quale dirigente e magari fa perorare la sua causa dal politico di turno, fa una battaglia di retroguardia. Questo modello, efficiente e in grado di soddisfare le emergenze è certamente da migliorare, ma non si può tornare indietro.

E poi? C’è la “rete” del territorio, quella che va dai medici di base agli ambulatori specialistici, che “prende in carico” il paziente e non lo costringe ad andare in pronto soccorso con un codice bianco o verde. Qualcosa c’è già, dalla mai abbastanza pubblicizzata “Unità di cure primarie” (più medici di base associati, se non c’è il mio di famiglia  è disponibile un altro) al cosiddetto “Ambufest” nei giorni festivi. Nel primo caso ci sono Comuni che hanno messo a disposizione ambulatori condivisi, nel secondo la Regione ha fatto già dei passi in avanti.

Diverso il discorso di “presa in carico” che un’amministrazione deve fare proprio d’intesa con la Asl: persone fragili, malati cronici, non devono cercare da soli le prestazioni, per esempio, e magari attendere mesi. No, si deve programmare quello che è prevedibile per un diabetico piuttosto che per un malato di Parkinson, tanto per fare degli esempi. Un Comune deve guardare a questo, alla creazione di un modello virtuoso di integrazione socio-sanitaria. Lo fanno in tante realtà, è sicuramente meglio che gridare “ci chiudono l’ospedale“.

Così come un Comune deve essere in prima linea nella prevenzione, dalla promozione dei corretti stili di vita al sostegno alla Asl nelle campagne di screening per i tumori e tutto il resto.

Poi c’è il discorso legato alla riabilitazione, alle residenze sanitarie assistenziali, settori nei quali i privati continuano a guadagnare e il pubblico arranca, quando invece potrebbe rappresentare una parte consistente della risposta.

Ecco, se toccherà a noi non ci scandalizzeremo per un posto letto in meno, se a quello corrisponderanno due servizi in più sul territorio. E quando saranno convocate le conferenze dei sindaci lo diremo a cittadini e operatori, chiedendo un loro parere. Non è mai stato fatto, in passato,  non sembra nelle corde di chi oggi finge di correre ai ripari. Anche per questo  proponiamo #unaltracittà

L’ospedale, il territorio. Un dialogo tra sordi e qualche idea

villalbani

In attesa del prossimo “tavolo” convocato dai Comuni sulle vicende dell’ospedale, è bene sottolineare ancora una volta che il problema non è e non può essere semplicemente il “Riuniti” ma quello che c’è intorno. Perché se prima non capiamo una volta per tutte che i posti letto, da soli, non sono più una risposta ai bisogni di salute, non capiremo mai che l’investimento vero va fatto sul territorio.

Ecco, convocare un “tavolo” come è stato fatto nei giorni scorsi e dimenticare i medici di base – primo filtro per una sanità che funziona a dovere – è stato un errore madornale. Nobile l’intento di salvaguardare l’ospedale, ma ripeto che da solo non è sufficiente. La prossima apertura del Policlinico dei Castelli (spero di sbagliare, ma pare avessero “dimenticato” che servono rete fognaria e fornitura idrica) e l’inserimento di Anzio-Nettuno nella rete dell’infarto (prossimamente dell’Ictus) con la Asl di Latina, impongono ripensamenti seri sul ruolo del “Riuniti” ma prima ancora dell’offerta sul territorio. Finora medici ospedalieri e di base, specialisti ambulatoriali, hanno messo in piedi un dialogo tra sordi. La responsabilità è sempre di altri, ma proviamo a vedere come si è arrivati a questo punto e quali sono le reti da costruire prima che sia troppo tardi. Qualcosa si è mosso, ma non basta ancora.

  1. Il pronto soccorso affollato: è rimasto l’unico presidio certo al quale rivolgersi, non solo ad Anzio-Nettuno, e lo dimostra la situazione in tutto il Lazio. La chiusura di sedi ospedaliere, la mancata riconversione e il mancato avvio di adeguati servizi territoriali fa sì che pazienti cronici o con patologie non tali da giustificare un accesso  vadano nei dipartimenti di emergenza. Risultato? Affollamento, personale sovraccaricato, il 70% circa  di codici bianchi o verdi – per i quali non serviva il pronto soccorso – e casi come quello del paziente oncologico morto al “San Camillo”.
  2. Ucp: le unità di cure primarie o studi  associati, quelli che la Regione ha organizzato ma che i medici di base che hanno aderito (non tutti) preferiscono non pubblicizzare. Dalle 9 alle 19 e dal lunedì al venerdì se non c’è il proprio medico si può andare da un altro, associato, senza ricorrere necessariamente al pronto soccorso. Non sono rese adeguatamente note,  quindi finora sono inutili.
  3. Ambufest: nei fine settimana e nei festivi, sempre dalle 9 alle 19, si può fare ricorso a questo servizio, certamente molto più rapido di un’attesa in pronto soccorso per dolori addominali che magari durano da tre giorni. Anche qui, scarsa pubblicizzazione.
  4. Casa della salute: questa sconosciuta o chi l’ha vista? Quella che la Asl di Latina si affrettò ad aprire a Sezze non aveva collaudo, ad esempio, ma al di là di vicende strutturali è il modello che non funziona o almeno non ancora. La “presa in carico” dei pazienti, la rete sociosanitaria, sono pie intenzioni finora non realizzate. Il modello teorico c’è: se un paziente diabetico – ad esempio – ha bisogno di x esami o visite l’anno, per quale motivo devo farlo girare a fare prescrizioni, prenotazioni e via discorrendo? So chi è, ci penso io. Un orizzonte affascinante ma non ancora concreto. E di quella prevista a Villa Albani non vediamo traccia.
  5. Assistenza domiciliare/Rsa: chiudere i posti letto va bene, è stato  necessario dopo anni di sprechi e grazie alla moderna chirurgia che non richiede più lunghi ricoveri, ma servono alternative. Potenziare l’assistenza domiciliare, autorizzare Rsa che non siano dei “soliti” furbi e paghino gli stipendi, le alternative ci sono ma  non sono mai decollate sul serio. Una casa della salute capace di “prendere in carico” servirebbe anche a questo.
  6. Prevenzione: è la vera grande sfida della sanità e non può che essere fuori dagli ospedali. Su questo i sindaci – e non solo loro – devono battersi con la Asl affinché metta al primo posto attività di screening sempre più vaste, sia per le patologie tumorali sia per i corretti stili di vita.
  7. Liste d’attesa: più servizi aprono, più c’è richiesta, più si allungano i tempi. Sono di per sé un falso problema, soprattutto perché se una prestazione serve con urgenza i medici di base hanno a disposizione un numero dedicato grazie al quale – entro 72 ore – l’esame necessario si esegue. Anche qui, qualcosa non torna. L’adeguatezza prescrittiva, riferibile anche ai farmaci, va necessariamente affrontata, mentre i cittadini educati a chiamare il Recup (o scrivere, richiamano in 24 ore) perché se la prestazione sotto casa è fra sei mesi, spesso ce n’è una a pochi chilometri fra tre giorni. Certo, si deve trovare chi ti accompagna,  ma pure qui se esiste la “presa in carico” si trova pure il modo di far funzionare servizi di trasporto protetto che ormai sono la norma nei posti civili.
  8. Ospedale:  funzionando tutto il resto, si capisce che  diventa un pezzo del sistema, non il centro dello stesso. In pronto soccorso va chi ha un’urgenza vera, viene trattato e stabilizzato, quindi trasferito se necessario. A quel punto date le chirurgie di base e per l’emergenza, lasciato il punto nascita,  si può immaginare un’attività di elezione mirata ovvero una trasformazione in attività di supporto o ambulatoriali. Il percorso che oggi fa l’ortopedia, ad esempio, è già virtuoso: frattura, pronto soccorso, poi ambulatorio per tutto il resto.
  9. Specialistica: l’ospedale generalista non esiste più, per questo a un primo trattamento nelle emergenze devono seguire  risposte adeguate non necessariamente sotto casa. Il principio, e i sindaci farebbero bene a battersi per questo, deve essere quello della cura migliore nel posto più adeguato e non della cura semplicemente in quello più vicino.
  10. Riabilitazione: insieme alla prevenzione è l’altra grande sfida, in parte già vinta proprio a Villa Albani dove arrivano persone dopo il primo trattamento post ictus – ad esempio – o si va a seguito di una operazione all’anca o al femore.

Per fare questo serve una Asl che risponda a principi di corretta gestione prima che politici (negli anni sono state costruite a destra e sinisrta carriere che avrebbero portato voti a forza di “Uos” spesso inutili) servono medici umili, di ogni categoria, e cittadini disposti a capire che se chiude un reparto non crolla il mondo, basta che c’è un servizio alternativo che funziona. Serve una rivoluzione culturale, dunque, che potrebbe cominciare già al prossimo “tavolo“, quando sarà bene affrontare il tema salute,  perché solo ospedale è riduttivo.

Il presidio, la passerella, l’ospedale che non chiude e quello del futuro

ospedale

Va dato atto a chi ha organizzato il presidio all’ospedale di Anzio di aver smosso un interesse mai visto prima, salvo che fossimo in campagna elettorale quando si inauguravano anche solo “consegne” di cantieri. Sono arrivati rappresentanti regionali di diversi schieramenti, mentre la Asl ha fatto immediatamente sapere quali sono le misure per il “Riuniti”. Quelle che aveva preannunciato, di fatto, ieri, il presidente del Consiglio regionale Daniele Leodori

Ieri sera c’era gente che arrivava per firmare di continuo, chi scrive ha messo la propria dopo un dialogo con gli organizzatori e comprendendo la genuinità di chi ha immaginato l’iniziativa. Non il messaggio.

La preoccupazione di chi, da giorni, 24 ore su 24, è sotto al gazebo di fronte al pronto soccorso, è infatti quella che a forza di “svuotare” i reparti, accorparli, ridurre le prestazioni, l’ospedale chiuda. Preoccupazione legittima quanto infondata. Sommessamente si ritiene che oltre a non essere scritto sull’atto aziendale, nessuno è così pazzo da eliminare una struttura sanitaria in un bacino d’utenza che conta normalmente oltre 110.000 residenti che d’estate diventano il triplo.

Quello che si deve sollecitare a chiudere è, invece, un ospedale concepito all’antica. La sanità non è più, semplicisticamente, posti letto. Non è e non deve essere il pronto soccorso a dover sopperire alle carenze del territorio. Non è l’ospedale il luogo per “aggirare” le liste d’attesa e fare esami che se fossero realmente urgenti vedrebbero i medici di base chiamare il numero verde a loro riservato. Un ospedale non è più – e non doveva essere prima – un votificio.

Purtroppo è successo. Purtroppo i primari sono stati, in troppe occasioni, dei piccoli feudatari. Oggi, con un ospedale per “intensità di cure” e non più dove conta chi ha più letti, va cambiata una mentalità superata dalla storia. Se ne deve accorgere anche la politica, spiegando – anzitutto ai tanti medici che vi girano intorno – che la medicina del futuro è quella della “prossimità” e non del ricovero, capendo che i tempi dei favori (infermieri in ufficio, medici promossi in improbabili unità operative semplici e fuori dai turni, quindi con maggiori carenze per i reparti) per il ritorno elettorale sono superati. E l’atto aziendale della Asl – votato all’unanimità, quindi anche dal sindaco di Anzio Luciano Bruschini o suo delegato – va in questo senso. Cancellando le unità operative (oltre 200) e non i servizi. Ci auguriamo potenziando definitivamente le “prime linee” dei pronto soccorso.

Certo, una rivoluzione. Come quella che deve fare un certo vetero-sindacalismo, quando suggerisce -e speriamo di sbagliare – i certificati di malattia come alternativa ai trasferimenti nell’ambito della stessa azienda.

Fa riflettere, invece, quanto affermato oggi dal direttore generale Fabrizio D’Alba su chi non accetta contratti di sette mesi (e poi c’è la crisi…) e chi, invece, a scorrimento delle graduatorie, preferisce non accettare Anzio. Troppo comodo. La Regione Lazio, oltre a bloccare il turn over e a concedere deroghe – cinque su otto nella RmH sono state destinate ad Anzio – deve trovare il modo di dire a chi non accetta un posto che può anche dimenticare di lavorare con le Asl del territorio .

E a proposito di atto aziendale, è da sottoscrivere quanto afferma il direttore generale: “Al fine di qualificare le strutture aziendali ed ottimizzare le risorse è stata elaborata, e presentata all’Ente regionale, una dettagliata proposta di riorganizzazione della rete ospedaliera della Asl Roma H, alla quale si rimanda per ogni più completo dettaglio, e per la precisa definizione per ciascun polo, delle attività che saranno presenti nei singoli presidi ospedalieri a seguito del riassetto derivante dal presente Atto, precisando che alle suddette attività non necessariamente debba corrispondere la individuazione di una Unità Operativa complessa o semplice, potendo le stesse essere assicurate anche da parte di Dirigenti con incarico professionale, afferenti a Unità Operative Complesse ubicate presso il medesimo Polo o, in caso di attività su scala aziendale, anche in Polo Ospedaliero diverso. Laddove siano presenti linee di attività e funzioni, quali ad esempio quelle di assistenza e cura di patologie diabetiche, non organizzate in autonome Unità Operative semplici o complesse, queste non devono intendersi soppresse, essendo obiettivo aziendale, all’opposto, il loro specifico rilancio ed addirittura potenziamento con nuovi percorso e metodologie di lavoro come piani, programmi e progetti”.

E’ la teoria. Quando sarà pratica – speriamo presto – avremo degli ospedali moderni e un territorio che risponde, i malati “presi in carico”, i pronto soccorso solo per le emergenze, i posti letto per osservazione, acuti e post acuti e dalla parte degli utenti, non dei primari. 

Allora non ci saranno più, speriamo, i tanti politici che in questi giorni hanno cavalcato l’onda o fatto passerella. Comunque  se è servito a dare risposte che altrimenti non sarebbero arrivate o non avrebbero avuto la stessa eco, il presidio è stato un bene. 

Quando i politici “scoprono” la sanità. Sapendo poco

ospedale

Non c’è dubbio che la situazione dell’ospedale di Anzio sia difficile. Non lo è da oggi, ma da tempo, in particolare nella “prima linea” del pronto soccorso. Al personale va un plauso assoluto e incondizionato. E fanno anche bene, i politici di varia estrazione – qualche giorno fa il vice sindaco Zucchini, poi il consigliere regionale Santori – a far sentire la loro voce.

Scoprire” le difficoltà dell’ospedale tanto per farlo, guadagnarsi titoli sui giornali e accontentare i propri “galoppini” locali serve però a poco se non ci sono due azioni conseguenti. Anzi tre.

La prima è la conoscenza. La macchina sanitaria è una delle più complesse da mandare avanti ed è chiamata a fornire il bene più prezioso: la salute. E’ una macchina che paga, oggi, quanto è stato fatto nel corso degli anni dalla politica con sprechi e clientele. Da chi “imbucava” un infermiere in ufficio o da chi faceva “promuovere” primario di una singolare unità operativa – meglio semplice, i gradi erano più facili da dare – l’amico/elettore, con seguito di consensi. Da chi imponeva il presidente del comitato di gestione e poi il direttore sanitario, a chi non controllava i costi per cui la stessa siringa costava in un’azienda sanitaria 10 e in un’altra 2.

Oggi paghiamo nei conti della Regione ancora i “leasing back” di Storace che per fronteggiare la situazione di disastro finanziario ha venduto le strutture, paghiamo le “macro aree” scellerate della Polverini (i debiti di Roma spalmati sulle Asl del Lazio), le scelte mancate di Badaloni prima e Marrazzo poi. Perché con la sanità si vincono o perdono le elezioni, questo è il problema…. E il medico x, il quale magari ha pagato un intero tavolo alla cena elettorale di autofinanziamento del politico y, farà carriera….

Conoscenza è anche sapere che un sindaco può incidere sulle scelte nell’apposita conferenza locale. Cosa ha fatto Bruschini, per esempio, quando c’era da approvare l’atto aziendale della Roma H? Cosa ha chiesto per il territorio?

La seconda è trovare soluzioni possibili. La “coperta” della sanità è corta per i numerosi errori commessi in passato, ma certo è singolare che un infermiere, nella stessa azienda, non possa essere spostato da Nettuno ad Anzio o da Ariccia ad Albano per “tamponare” un’emergenza. Urlare con Zingaretti e fare interrogazioni  va bene, ma chiedere al direttore generale Fabrizio D’Alba di sedersi con i primi cittadini del comprensorio e trovare le soluzioni possibili per tempo non è una bestemmia. Magari facendo capire a chi si trova nel centro prelievi o nel reparto della città X che non può stare a scaldare la sedia se d’estate l’attività si dimezza. Vanno bene le interrogazioni, delle quali possiamo anticipare anche le risposte (piano di rientro, impegno a…, investimenti per…) ma è il caso di trovare le soluzioni pratiche. Insieme anche alle organizzazioni sindacali che qualche cessione dovranno pur farla, perché pazienza chi deve fare un viaggio ma un infermiere o un medico potranno anche attraversare un corridoio o, se proprio necessario, cambiare palazzo quando serve.

Invece ho registrato, in passato, festanti comunicati di politici per aver tenuto aperto un laboratorio analisi o ho dovuto difendermi da chi mi diceva “vuoi il male dell’ospedale x” (300 parti l’anno o nessun paziente ma turni h24 di chirurgia) dicendo “tu vuoi il bene di chi non vuole spostarsi, non di chi ha bisogno dell’ospedale“.

La terza è prendersi la responsabilità di dire la verità e immaginare qualcosa di diverso. L’ospedale sotto casa per tutti non serve, anzi è dannoso. Se è una cosa grave devi avere la certezza di essere portato, magari in elicottero, dove possano curarti bene. I posti letto sono un falso problema, perché dovrebbero essere l’estrema necessità ma spesso sono chiamati a sostituire ciò che non viene fatto sul territorio. L’idea delle “Case della salute” è buona, ma finora sono scatole vuote, quando non crollano come a Sezze dopo essere state aperte senza autorizzazione all’esercizio.

Le Unità di cure primarie (il medico di base aperto 12 ore, se non il proprio quello di uno studio associato) vanno fatte conoscere e incentivate, i pronto soccorso sono affollati di casi inutili (codici bianchi e verdi) e le lunghe attese sono dovute al fatto che il territorio non risponde, i malati cronici vanno presi in carico davvero e non con dichiarazioni d’intenti o comunicati che tali restano. La chiamano “medicina di prossimità” quelli che ne sanno più di chi scrive. E c’è un’altra grande responsabilità: tagliare i rami secchi, quelli veri. Un esempio su tutti. In provincia di Latina ci sono due emodinamiche. Sono indispensabili in caso di infarto, un intervento può salvare la vita ma… I dati statistici parlano di una emodinamica ogni 5-600.000 abitanti, quanti ne ha la provincia pontina. E’ evidente che uno dei servizi è di troppo, è stato una esigenza “politica” e ora guai a chi lo tocca.

A Roma, 3 milioni di residenti, mettiamoci turisti e altre presenze durante l’anno 5 milioni, le emodinamiche dovrebbero essere 10. Ce ne sono 29. E se togli la convenzione a uno, ti minaccia di licenziare il personale, se la togli a un altro arriva il potente di turno e quindi non si tocca, se pensi a un altro ancora è un ente religioso e che sei matto?

E quanti casi-emodinamica ci sono? E perché non immaginare che se sono aziende, le Asl funzioni come tali e non con l’elefantiaca burocrazia pubblica? Chiedessero questo i consiglieri regionali, di maggioranza e opposizione, si impegnassero sin d’ora a non “raccomandare” nessuno per uno spostamento in ufficio o qualche improbabile unità operativa, dicessero ai cittadini qual è la situazione e si impegnassero per la sanità sul territorio. Solo così possiamo uscirne, il resto è propaganda.

Alta diagnostica, la trasparenza non abita alla Regione

urplazio

C’è la trasparenza decantata, quella messa nei comunicati ufficiali copiati a piene mani da siti e agenzie, e quella reale. La Regione Lazio predica bene e razzola male e aspetto ancora – sono trascorsi più di due mesi – la risposta in merito a un documento che chissà cosa contiene se è così difficile da avere. E’ la nota con la quale, nel dicembre scorso, la Regione ha fatto dietrofront sul centro di alta diagnostica per immagini di Latina. Da lì è partito un percorso kafkiano che finora ha prodotto un solo risultato: il centro unico in Italia per macchinari e potenzialità rischia seriamente di non farsi più nel capoluogo pontino, anche se nessuno sa dirci ufficialmente perché a livello istituzionale. Chiedi alla Regione Lazio, all’ufficio stampa, ma della nota non ti fanno sapere nulla. Fai chiedere a un consigliere regionale di opposizione, ma nemmeno lui riesce a scardinare la burocrazia. Allora pensi al percorso ufficiale: richiesta di accesso agli atti “ai fini di un servizio giornalistico” (a cosa siamo arrivati…) dalla pagina dell’Ufficio relazioni con il pubblico (Urp). E’ il 4 agosto, l’Italia è in ferie, ma la risposta automatica con il numero di “ticket” assegnato alla richiesta arriva subito. Speri sia la volta buona, ma nulla…

Allora chiami, due mesi dopo, e chiedi. E’ ormai una questione di principio, la lettera e il suo contenuto nel frattempo sono ormai noti per vie traverse, ma scopri da una gentile operatrice che la Regione ha chiesto alla Asl di provvedere… Siamo seri, quella nota è partita dagli uffici della Regione Lazio e per quale motivo – in quella che è ormai universalmente nota come accessibilità totale – non sia ancora stata consegnata a chi l’ha chiesta è un mistero. E fortuna che attraverso l’Urp, fra l’altro “il cittadino ha la possibilità di porre quesiti ed osservazioni attraverso il canale mail ed ottenere risposta in tempi brevi”. Brevi quanto, di grazia?

Ah, comunque la lettera non serve più. Grazie lo stesso.