“Ma solo”, ci rivediamo in Ciociaria

Quattro anni di Sardegna vuol dire, se uno ci vive dentro, insieme, almeno imparare il dialetto…” Fabrizio De Andrè perdonerà se uso questa sua frase che introduceva il brano “Zirichiltagghia” per dire che 3 anni di Ciociaria, standoci dentro, ti consentono di imparare qualcosa anche del dialetto.

Tre anni che hanno permesso, soprattutto, di apprezzare una terra meravigliosa. Ho salutato i collaboratori della redazione del Messaggero (è la foto sopra), i colleghi con i quali ho condiviso questo periodo nella prima linea straordinaria rappresentata dal giornalismo “di prossimità“. Il più affascinante e difficile, perché devi stare molto più attento di quelli che l’indimenticato Gigi Cardarelli chiamava “inviati di un giorno“. Quelli che arrivano, scrivono, se ne vanno e non li vedi più.

No, in provincia le persone delle quali scrivi le incontri quotidianamente e quando accade qualcosa – nel rispetto dei ruoli – devi sempre fare il tuo mestiere, ma proprio per questo hai il dovere di farlo meglio possibile. Cercando sempre di verificare tutto e bene, di avere le fonti giuste, il modo migliore per dire che i giornalisti – se fanno questo – servono ancora al tempo della “disintermediazione”. Spero di averlo fatto in questo triennio, così come in passato.

Fare il capo di una redazione è un impegno importante, soprattutto in un territorio vasto come quello della provincia di Frosinone che conta 91 comuni e che ho avuto la fortuna di girare in lungo e largo. Se non sono stato a Terelle mi perdoneranno, se mi è mancata Vallecorsa o Strangolagalli, so con chi prendermela (!). Ho scoperto comunque un territorio affascinante, ricco di storia, di tradizioni, capace di andare oltre i campanili quando c’è da decidere qualcosa per il territorio. Uno spirito di appartenenza che non ho riscontrato a Latina, nelle precedenti esperienze professionali, o nella “mia” Anzio. In Ciociaria no, fino a un minuto prima si spaccano ma quando c’è da decidere trovano una quadra. Chissà se riusciranno per la Tav, ad esempio, ma è un augurio sincero che lo facciano. Come la mobilità sostenibile nel capoluogo o una soluzione per la vertenza Stellantis.

Ci sono tanti episodi che potrei raccontare di questi tre anni, molti sono legati alla cronaca (“una priorità“, come ripetevo ai collaboratori) altri ai momenti straordinari come la promozione del Frosinone in Serie A (forza, si può e si deve mantenere la B) o il recente G7 o con la visita del Presidente Mattarella. Altri ancora per le persone incontrate, dai ragazzi del Centro disabili che ci hanno regalato la M stilizzata del Messaggero che fa bella mostra in redazione, a chi aveva difficoltà e ha deciso di aprirsi e raccontare attraverso le nostre pagine. All’esperienza con i detenuti (grazie, Teresa) a chi siamo riusciti ad aiutare con un nostro articolo o ci ha seguito sui social segnalandoci degli errori quando c’erano, fino a chi ci ha spronato ad andare avanti su alcune iniziative, a quanti hanno coinvolto me oppure i colleghi in iniziative promozionali o culturali. Nel fare la “classifica” degli eventi estivi dell’ultima stagione, per esempio, abbiamo faticato a “bocciare” qualcuno perché sono ormai tradizioni consolidate – non lo scopro io – quelle che si tengono a Veroli oppure ad Anagni, a Ferentino oppure ad Atina, in Val Comino, a Sora, Isola Liri o da Collepardo ad Alatri (ma quante Madonne ci sono da festeggiare a Tecchiena piuttosto che al Laguccio o Mole Bisleti?)

Ho apprezzato il lavoro ancor più di “prossimità” – quello sì – che svolgono le diocesi, le parrocchie (un grande grazie a don Paolo e don Luca) o i tanti volontari. Seguendo come sempre da vicino il settore sanitario, ho avuto modo di conoscere professionisti importanti e servizi di eccellenza anche se mi è capitato di raccontare qualche caso di malasanità. La responsabilità dei quali, attenzione, sono solo all’ultimo di medici e infermieri, perché spesso a monte c’è una mancata programmazione unita alla carenza di mezzi e personale.

Ho conosciuto imprenditori illuminati, amministratori pubblici che tra mille difficoltà cercano di dare risposte, sindaci che non hanno mai alzato la voce di fronte a ciò che scrivevamo, dirigenti scolastici appassionati (Maria Rosaria su tutti, altri mi scuseranno), uffici stampa disponibili, investigatori capaci. Così come i colleghi delle altre testate, con i quali c’è sempre stato grandissimo rispetto e collaborazione, sapendo che ciascuno di noi sarebbe stato comunque soddisfatto se fosse riuscito a dare un “buco” all’altro. Perché questo mestiere è così e quando si tratta di notizie, arriviamo in capo al mondo. In provincia se ne trovano tante, tantissime, peccato che ormai si inseguano semplicemente i click e questo lavoro sia radicalmente cambiato. L’ho fatto avendo sempre a mente quello che diceva Indro Montanelli e cioè che “il nostro padrone è il lettore”. L’ho fatto preoccupandomi della deontologia professionale, del rispetto delle persone a maggior ragione quando sono in difficoltà.

Ho ricevuto apprezzamenti, andando via, anche da chi non immaginavo. Porto nel cuore ogni frase dei colleghi, ogni messaggio, i versi che mi hanno consegnato. Spero di aver fatto il miglior giornale possibile con quello che avevo e di una cosa sono certo: l’ho fatto con la massima onestà intellettuale e la coscienza a posto.

Conoscevo l’accoglienza della Ciociaria, ho imparato ad apprezzarne la “tigna”. Sapevo della bellezza dei paesi, ho apprezzato il fatto di conoscerli meglio e quanta passione ci mette chi li racconta ogni giorno. Sono i corrispondenti di provincia, quelli che mi hanno fatto commuovere di più e senza i quali nessun giornale sarebbe realizzabile. Anche nell’epoca del web. A loro va il mio grazie più grande.

Ma solo” è un intercalare che appunto, se ci vivi dentro, impari. Così come altre espressioni che ogni tanto uso, ormai, nel mio parlare quotidiano. La provincia è bella anche per questo. So che Annalisa (che mi ha fatto scoprire Tecchiena, mai confonderla con Alatri) mi “litiga” – come si dice qua – perché vado via dalla Ciociaria senza essere ingrassato, nonostante le porzioni luculliane che in ogni occasione mi sono state offerte ovunque fossi invitato. So che con Stefania e Mario – che conoscevo da prima e sono stati sempre un punto di riferimento in questo periodo – abbiamo già almeno tre appuntamenti l’anno (si comincia dal carnevale….) E insieme a loro con Maria e Daniele, perfetti padroni di casa. Grazie! Potrò fare a meno del “Pezz de Pane” di Roberta, innamorata come pochi della sua terra e ambasciatrice in Italia dei prodotti locali? Assolutamente no.

Sento di mandare un abbraccio immenso a Federica, la mamma di Thomas Bricca, il ragazzo ucciso ad Alatri a gennaio del 2023. Il suo racconto è stato uno dei momenti più difficili della mia carriera, la sua forza (e quella dell’associazione “Albero di Thomas”) un esempio di come da un dolore immenso possa nascere qualcosa di positivo per i giovani. Sarò in Tribunale il giorno della sentenza e spero ci siano tutte le persone che non accettano le prepotenze di ogni forma di criminalità presente, assai, anche in provincia di Frosinone.

Tanti mi hanno chiesto, in questi anni, “ti trovi bene a Frosinone“? a tutti ho risposto “ma solo...” Se siete arrivati a leggere fin qui, avrete capito il perché. Ci rivediamo in Ciociaria.

Addio a Fiore De Santis, indimenticabile quel “duetto”

Mi giunge la triste notizia della morte di Fiore De Santis, imprenditore nel settore delle pompe funebri capace di associare diverse agenzie della provincia sotto l’egida della Ifal, consigliere comunale e assessore per lungo tempo a Sermoneta, persona sempre disposta al dialogo con i giornalisti e soprattutto a fornire qualche “dritta”.

Quando volevo fare questo mestiere, all’università tenne una lezione Giampaolo Pansa che ci disse che dovevamo conoscere un direttore di banca, saperci muovere in tribunale e alla camera di commercio. Aveva perfettamente ragione, ma aveva dimenticato che un cronista deve avere rapporti anche con chi ha agenzie funebri. Sono loro che intervengono sempre, dall’incidente al decesso del personaggio noto, fino all’omicidio.

Con lui, sin dai tempi di “Latina Oggi”, si era instaurato un rapporto di reciproca fiducia. Se accadeva qualcosa e non ti vedeva arrivare, chiamava per dirti che fine avessi fatto. Quando c’eri, bastava uno sguardo per capirsi e dirgli, senza parlare “se c’è una foto della vittima, mi raccomando….” E se arrivavi in una casa – i social non c’erano e le suole andavano (come andrebbero) “consumate” – di fronte a qualche titubanza dei familiari era lui a mediare. E poi qualche dritta su come fosse andata l’autopsia, quella sulla fissazione delle esequie…. Ma anche la disponibilità, a Sermoneta, per qualsiasi cosa ti servisse. Una sera, se non ricordo male era il 2007, ospitavamo al castello la cena del congresso dell’Unione nazionale cronisti. La Compagnia dei Lepini aveva organizzato, insieme al Comune, l’accoglienza ma non avevamo fatto i conti con qualche anziano partecipante ai lavori. “Fiore, ma come lo aiutiamo a salire a questo? Come fate con i funerali?” E lui, serafico: “Vado a prendere una cassa e lo porto sopra...” Per fortuna, alla fine, non servì.

Il massimo fu in occasione della tragedia che sconvolse la città, ma l’Italia intera, con un’esplosione nella caserma dei carabinieri di Latina. C’erano i media di tutto il Paese e si svolgeva l’autopsia, i colleghi arrivati da altrove non conoscono la camera mortuaria dell’ospedale “Santa Maria Goretti” ed erano giustamente tutti piazzati dal lato in cui sarebbe uscito il medico legale. Io ero lì per l’Ansa e il Messaggero e vidi spuntare Fiore dalla parte opposta, quella per intenderci dove si possono visitare le salme. Mi avvicinai, chiesi del funerale e di altre curiosità, mi misi al telefono per dettare all’Ansa la fissazione delle esequie per il giorno dopo. Fiore si fermò a fumare una sigaretta poco distante. Un collega con accento del nord arrivò trafelato, mi chiese chi fosse e io “Il sostituto procuratore Fiore De Santis“. Lui capì al volo e quando il giornalista si avvicinò, rispose: “Ho detto tutto a Del Giaccio” e se ne andò, voltando le spalle. Fummo capaci, in una circostanza tragica, di inscenare un “duetto” che mise in evidenza quella reciproca fiducia e fece sottintendere a Fiore – verso quel collega – “non ti conosco, non so chi sei“. E’ anche questo il giornalismo locale, di “prossimità” come dicono quelli che hanno studiato. Ne riparlammo spesso, sempre scherzandoci sopra, di quella vicenda. Era anche un rapporto diverso e amichevole tra fonte e giornalista, senza tutti gli “orpelli” di chi oggi vuole autorizzare a dare notizie, come l’ex ministra Cartabia, procuratori timorosi, forze dell’ordine che aspettano il via e temono chissà cosa.

Non lo vedevo da tempo, una volta incontrandolo a Sermoneta capii che non stava bene perché fece fatica a riconoscermi. Chiesi ai “suoi” della Ifal – che abbraccio forte, a partire dal figlio – cosa fosse successo ma confermarono solo che aveva un problema. Restano tutte le volte che mi ha dato una mano, quella sera a Sermoneta (ma anche altre, davanti alla polenta prima della sagra), quell’indimenticabile “duetto”. Non sarà stato un magistrato, come io l’ho definito quel giorno, ma una persona importante per il mio lavoro. E glie ne sarò sempre grato. Ciao Fiore!

“Fare” il giornale, grazie Gigi

Sapevamo e abbiamo taciuto. Anche a noi stessi. Conoscevamo la tua riservatezza, caro Gigi, così quando ci incontravamo tra colleghi nessuno ne accennava. E dire che in più di qualche occasione ci era capitato di parlare di quei tempi, di quella straordinaria palestra che è stata “Latina Oggi”. Da ultimo quando è mancato Giuseppe Ciarrapico. Ha ragione uno dei tanti che ti ha ricordato sui social, il “romano” Claudio Barnini che nella sua esperienza con il Ciarra ha almeno vissuto spensierato gli anni con noi a Latina: speriamo siate in posti diversi lassù…

Perché Luigi Cardarelli, lo ricordo qualche giorno dopo la triste notizia della sua scomparsa, non meritava quell’editore così ingombrante in vita, meno ancora nel riposo eterno.

Lo so, a Gigi non sarebbe piaciuto nemmeno il clamore mediatico che ha avuto il suo passaggio, sarebbe stato schivo anche in quel momento se avesse potuto. E quando ci avvicinavamo alla cattedrale di San Marco (che “battaglie” con l’allora vescovo Pecile….) per l’estremo saluto, con Rita Cammarone ci siamo detti che in fondo in fondo si era scelto anche il clima.

Per avere meno gente, forse, o magari tenere lontano qualche ipocrita che invece c’era… Quelli che non varcavano la soglia di Corso della Repubblica, non provavano nemmeno a offrirti un caffè (freddo e amaro, d’estate) perché tanto avresti scritto ciò che volevi. Quelli che da un certo punto in poi hanno deciso che il loro riferimento era il Ciarra. Il quale inizialmente fece solo scena, poi entrò prepotentemente nelle scelte. L’inizio della fine, 1999 se non ricordo male.

Lo sapevi, ma non ammettesti (e quando mai…) che in fondo in fondo io e Lidano Grassucci avevamo ragione ad andar via. La situazione era diventata insopportabile, quando squillava il telefono nel “gabbiotto” sudavamo freddo perché avremmo dovuto rivedere un’apertura o ospitare uno sgrammaticato editoriale del presidente. E che pena quei fogli con i quali stabiliva di chi scrivere e chi non o i fantomatici ordini di servizio.

Tu, Gigi, hai tenuto botta finché hai potuto, hai provato a salvaguardare la “sacralità” che ci avevi tramandato della redazione, di questo straordinario lavoro, della necessità di fare la guardia “a tutti i Palazzi, comunque intesi”, come scrivesti sull’editoriale (attualissimo, 27 anni dopo) del primo numero del “Granchio”.

Ti chiesi la cortesia di scriverlo dopo averti chiesto l’autorizzazione a collaborare a quella intrapresa. Mi mettesti di “corta” ogni mercoledì, giorno di chiusura del “Granchio” ed era il tuo modo per dire: vai e fai. Dicono che mi consideravi un po’ come tuo “erede”, cosa alla quale non ho mai creduto. Paola un giorno a pranzo a casa tua mi disse che ti rivedevi in me da giovane, forse lo pensavi davvero, per questo vivesti come un “tradimento” il mio addio al giornale. Ecco, non ne abbiamo mai parlato, ce lo siamo sempre tenuti per noi, oggi vorrei dirti ancora e semplicemente: grazie. Come quella sera che chiusi dietro le mie spalle la porta di Corso della Repubblica. Grazie per la fiducia che non hai dato a me – affidandomi la responsabilità a un certo punto di sostituirti al giornale e all’Ansa – bensì a tutti i colleghi cresciuti in quella palestra. Ci ha fatto “fare” i giornalisti, per questo maestro è un termine riduttivo e che non avresti apprezzato.

Eri più felice di me quando il Messaggero stava per portarmi a Roma, cosa che a te il Tempo aveva sempre negato, rispondesti “lo sapevo” e rimanesti deluso quando non se ne fece più nulla. Meglio così, Gigi, dammi retta, E meglio che la mia “carriera” politica – che non hai condiviso, anzi… – sia finita presto. Anche di questo non abbiamo mai parlato, era il modo non solo per “controllare” il Palazzo ma rivoluzionarlo. Lo so, ai giornalisti compete altro, ma conosci la mia viscerale passione per Anzio, un po’ come l’idea “Europea” che avevi di Latina citando Muzio e Corona.

Schivo sì, riservato pure, ma quel “grazie” dopo il grande lavoro fatto sul piano regolatore di Cervellati, detto a ciascuno di noi, resta indelebile nella memoria. Perché, lo sai, lo ha ricordato Francesco leggendo in Chiesa, noi il giornale lo abbiamo “fatto” finché abbiamo potuto. Vallo a spiegare, per esempio, all’intellighenzia di Latina, della città non a caso “incompiuta” come l’hai descritta nel tuo ultimo libro, che quella sera della vittoria di Finestra noi avevamo pronta una analoga prima pagina con il titolo Di Resta. Vallo a spiegare che con i primi mezzi informatici che avevamo e grazie al compianto Massimo Santarelli ingrandimmo il corpo dei caratteri e perdemmo un pomeriggio. Perché non c’era la rapidità di oggi, non c’erano gli strumenti, i social nemmeno immaginavamo cosa fossero, però il giornale lo “facevamo” e chiunque avesse vinto il ballottaggio dovevamo essere pronti. E vallo a spiegare che quando ancora c’erano i menabò avevi una precisione maniacale con quel “tratto pen” passato sui fogli, tenevi alla grafica come a una notizia ma questa doveva venire sempre prima di sommari, sommarietti e arzigogoli vari. Perché – quante volte me la sono rivenduta – i giornali “si fanno, non si riempiono”. Perché l’essenza di questo lavoro è la notizia, è trovarla, è curiosare, è scriverla come nessun altro farebbe. Che scempio il “copia incolla” di oggi, vero Gigi? E non aveva forse ragione Umberto Eco rispetto a chi ha avuto sui social una voce che sì e no sarebbe rimasta al bar? Chissà quanto avremmo discusso sul fatto che i vari facebook, twitter e compagnia sono diventati una fonte…

E quanti ricordi, quanti… una vita professionale e non solo. Tremavo quando mi facesti chiudere dentro una cartellina pezzi, titoli, foto e menabò di una pagina da spedire… Il primo contratto articolo 36, quello da praticante per il quale andammo a “estorcere” la firma a Brunori, a Cassino, e ci fermammo a mangiare al ritorno a Priverno quando anche Mastrorilli della diffusione si infilò, la festa per la mia laurea, il matrimonio (“è la prima volta che resto fino al termine”), la tua scarsa affezione per il sindacato, le critiche ai sociologi – ma dicevi che non ce l’avevi con me – la passione per Montale, quella per Mina, quel piatto di prosciutto condiviso con pochi ma selezionati colleghi, le tragedie vissute in redazione per Susetta e Massimo che ci hanno lasciato troppo presto, il racconto di quando a Sezze fosti “recluso” dai Carabinieri per evitare guai dopo il delitto De Rosa o della preparazione del processo per il massacro del Circeo, i nostri processi per diffamazione, la gioia ogni volta che vincevamo al Tribunale di Cassino. A un certo punto eravamo diventati come la Lazio di quegli anni, la nostra Lazio che ieri sera ha voluto ricordarti – ne sono certo – con una di quelle vittorie che solo noi possiamo capire. Conservo la cassetta “Vhs” degli ultimi istanti dell’Olimpico e la contemporanea con Perugia… 14 maggio del 2000, uno scudetto indimenticabile.

Altro che “orso”, caro Gigi, c’erano slanci di grande divertimento. Basta che non si toccasse la “sacralità” del lavoro e che non si scherzasse sugli affetti familiari. Le parole lette da Francesco, in Chiesa, hanno riassunto al meglio. E sono certo ci sia la mano di Maddalena.

Noi sapevamo, Gigi, ma non ce lo dicevamo. Avevi già combattuto e vinto, alla grande, contro un tumore. Questo ha avuto la meglio. Resti nel cuore di Paola, Maddalena e Francesco – li abbraccio ancora forte – dei tuoi familiari, di chiunque ti ha apprezzato davvero. Resti nel mio. E come quella sera ti dico grazie, mentre in sottofondo su youtube (eh sì, i moderni mezzi…) Mina canta “E se domani….”

Addio a Zucconi, quei ritagli e il piacere di leggerlo…

Vittorio Zucconi (foto da Repubblica.it)

Vorrei tanto dirlo a mio figlio, se solo ci fosse una cabina telefonica qui…” Di Vittorio Zucconi, il giornalista morto oggi, conservo un’infinità di “ritagli“. Quella di mettere da parte articoli, prima dell’avvento del web e dei pdf, è una vecchia passione. La frase che riporto all’inizio concludeva il primo pezzo su “Repubblica” del viaggio che intraprese in Italia sulle orme dello sbarco dei “Mille”. Raccontava – come solo lui sapeva fare – delle preoccupazioni del figlio per la situazione italiana, ironizzava, spiegava che sì il museo di Marsala era chiuso ma lui aveva trovato un custode disponibile e che gli aveva fatto da guida. Del fatto che nessuno lo aveva aggredito o derubato, per esempio, ma che non poteva dirlo perché fuori al museo non c’era modo di telefonare. E’ passato qualche anno, è evidente, le cabine sono un lontano ricordo. Ma non era cambiato il suo modo di raccontare, quello che ti prendeva dalla prima all’ultima riga, quello che ti faceva “vivere” insieme ai protagonisti, ti “portava” nei luoghi – in America, soprattutto – e ti spiegava cosa stava succedendo.

Leggerlo era un piacere, ascoltarlo anche quando si collegava con Radio Capital, i suoi pezzi non erano mai banali. Mai. Fosse il reportage sulle elezioni americane, il mondiale di calcio scritto da un’angolazione assolutamente diversa o il racconto della vittoria degli Usa contro Cuba alle Olimpiadi di Sidney Un evento storico, per chi conosce un po’ di batti e corri…

Chi aveva la passione per questo lavoro e ha avuto anche la fortuna di farlo, ha sempre avuto in Vittorio Zucconi un punto di riferimento, un fine conoscitore del mestiere prima ancora che delle cose del mondo, rese al pubblico – mi ripeto – in maniera affascinante. Non mi è mai capitato di incontrarlo, per quello che vale scrivo qui la stima che avevo per lui. E conservo ancora più gelosamente quei ritagli di stampa.

Ciao Guido, continueremo a lottare contro ogni bavaglio

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Guido Columba con il megafono in mano, durante una manifestazione a Latina, nel 2008

E dove vuoi che vadano se c’è un incidente? Sul posto no, inutile che lo scrivi...”  Ho conosciuto Guido Columba quando ero corrispondente Ansa da Latina e provincia e lui era alla “romana“, prima di passare agli Interni.  Ci scherzavamo: “Ah, adesso sei tra quelli che chiedono il pezzo da su…” Succedeva in casi particolari, quando la notizia aveva una eco nazionale, da “su” – il piano superiore rispetto alla sede della “romana“, dove si trovava il servizio – chiedevano e quindi sollecitava.

Ho condiviso con lui l’esperienza del comitato di redazione, quella nell’Unione nazionale cronisti (organizzammo un congresso nazionale a San Felice Circeo) la battaglia contro ogni bavaglio. “Liberi di informare, liberi di sapere” è lo slogan che ci accompagnava e che continuerà ad accompagnarci oggi che Guido ci ha lasciati.

Nel ricordo dell’attuale presidente dell’Unione cronisti, Alessandro Galimberti, c’è il sunto di ciò che è stato. Nel libro realizzato per la prima “Giornata della memoria dei giornalisti uccisi dalle mafie e dal terrorismo” che lui ha istituito, Guido scrive – come ci ricorda Romano Bartoloni:  “Nessuno di loro aveva la vocazione dell’eroe, ma tutti non si sono mai accontentati della versione ufficiale, di comodo degli avvenimenti. Hanno fatto giornalismo di inchiesta, sono andati a vedere di persona, hanno raccontato ciò che gli altri non vedevano o non volevano vedere. Costituiscono un monito e anche un ancoraggio per i cronisti di oggi”.

I ricordi sono molteplici, dall’organizzazione di quel congresso al premio che mi consegnò a Viareggio, dal suo viaggio in moto ad Anzio con il telefonino finito chissà dove alla burrascosa riunione con i vertici dell’Agenzia quando paragonai uno di loro a Ciarrapico. Dalla biciclettata contro una delle tanti leggi bavaglio alle lettere ai Prefetti, dalle manifestazioni nelle piazze, agli scazzi in quel Cdr dell’Ansa, fino a quello che è stato l’ultimi incontro: era già malato ma non volle mancare all’esterno del Tribunale di Roma, dove Federica Angeli avrebbe  testimoniato contro i clan di Ostia.

Gli chiesi di venire a presentare il mio libro “Sangue sporco” ad Anzio e disse subito di sì “ma prima fammi leggere“. Perché – come ricorda ancora Romano Bartoloni – ci sono  cose che lo hanno guidato sempre:  “la coscienza professionale, i diritti della persona, i codici e le leggi“. E se un libro non lo leggi, inutile che vai a fare domande.

Per questo c’è un ricordo che porto dietro gelosamente, il complimento più bello che si possa ricevere in questo lavoro: “Sei andato, hai visto e hai raccontato. Bravo“. E’ il succo del mestiere di cronista e leggendo il libro aveva avuto questa impressione.

Grazie di tutto, Guido, e stai certo che le tue battaglie andranno avanti. E comprendici, “da su“, se commetteremo qualche errore.

Il Granchio e queste città, 25 anni dopo

granchio

Era una fredda domenica di gennaio. Chi dice che quello che stiamo vivendo è l’inverno peggiore, spesso su basi non meglio specificate, ha evidentemente la memoria corta. Sì, domenica 11 gennaio 1992 faceva freddo più o meno come adesso ed era in edicola il primo numero del settimanale “Il Granchio“. Doveva uscire il giorno prima, nelle intenzioni di noi giovani e di belle speranze, ma i rigorosi tempi che avevamo provato a darci e la tecnologia dell’epoca non erano serviti a molto. La sfida iniziata qualche mese prima, con la costituzione della cooperativa editrice ancora oggi del settimanale, era appena iniziata. Ci davano per spacciati dopo le elezioni del ’92, poi dicevano che avremmo retto fino alle amministrative, via via hanno imparato che quel gruppo iniziale – e chi è arrivato dopo – è stato capace di reggere finora per 25 anni. Anzitutto auguri al Granchio, a chi c’è e a chi c’è stato, a chi ha anche solo una volta consegnato i giornali nelle edicole, a chi a vario titolo ha permesso di arrivare sin qui. Nessuno di noi, con me c’erano Giovanna Consolo, Ivo Iannozzi, Claudio Pelagallo, Elvira Proia e Nino Visalli,  immaginava che quell’idea di un giornale vero e “nostro” potesse avere una vita del genere. Invece è ancora qui e ci sarà per molto. Facevo i conti, ad Anzio sono passati sette sindaci e tre commissari, a Nettuno sei sindaci, una commissione straordinaria e due commissari, ma il Granchio è lì.

Un quarto di secolo dopo, con due generazioni e mezzo che nel frattempo sono passate, con chi è nato nel ’92 che intanto si sarà laureato o starà lavorando, la domanda è: senza il Granchio queste città sarebbero state le stesse? A parere di chi scrive assolutamente no. Il giornale ha esercitato ed esercita quel ruolo che avevamo immaginato di “cane da guardia” delle istituzioni locali. Ha portato un modo di fare giornalismo – dando spazio alla cronaca più che alla politica, allo sport più che al chiacchiericcio – ha messo la classe  dirigente di fronte a una prima pagina che mai avrebbe immaginato, ha incalzato il potere e le macchine burocratiche, ha cercato e pubblicato i documenti, ha espresso opinioni, è andato in piazza “contro ogni crimine“, si è scontrato, è rimasto sempre di chi lo mandava in edicola e non di altri, ha dato voce a chi non l’avrebbe avuta, ha avuto il riconoscimento dell’unico padrone possibile: il lettore. Indimenticabile l’aiuto di chi – in un periodo di crisi – decise di dare un sostegno economico o la frase di un’umile signora di Nettuno che in ospedale, al medico che fa il saccente verso il giornale, risponde: “Nci fosse o Granchio, tante cose nse saprebbero“.  Bellissime le parole di Luciano Bruschini, sindaco di Anzio, al 18° compleanno della testata: “Siete stati la vera opposizione“.

Non ho mai creduto alle funzioni pedagogiche di un giornale, a quelle di far conoscere a un pubblico il più vasto possibile quello che succedeva sì, senza guardare in faccia nessuno. Ho, abbiamo, interrotto amicizie, minato parentele, subito minacce, ricevuto querele e richieste di risarcimento. Emblematica una sentenza che non riconosce i 300.000 euro che avrebbero fatto chiudere il Granchio: le notizie vanno date con particolari a maggior ragione in una realtà locale. E fare il giornale nel posto dove sei nato e cresciuto, era e resta infinitamente più difficile che fare l’inviato, arrivare in un posto, raccontare e andare via.

Il giornale è stato ed è anche altro: un’impresa che dà lavoro, una “palestra” per chi si avvicina a questo mestiere, una rampa di lancio per quelli che passati per la redazione ora lavorano come professionisti. C’è da esserne orgogliosi.

Ha sbagliato il Granchio in questi 25 anni? Certamente, ma mai in malafede. Non sarebbe ancora qui, oggi. E a quanti, ogni settimana, hanno perso e perdono tempo a immaginare cosa o chi possa aver portato a scrivere una vicenda, a far “salire” o “scendere” qualcuno, basterebbe semplicemente far vivere quello che accade in “chiusura” del numero, il mercoledì. C’era l’idea – rimasta tale – di farne un  copione teatrale o un “corto“. Chissà….

Ho sbagliato, io che sono tra i fondatori? Sì, perché non si è perfetti, perché quando una notizia è uscita non la blocchi, perché le fonti devi verificarle non una ma dieci volte. Il più grande errore è stato quello di credere – e provare a far credere ai lettori – che il nuovo porto di Anzio era cosa fatta. Di certo per la prima volta dalle ipotesi eravamo passati alle carte e a un percorso definito, ma non è bastato e non è il caso di ripercorrere qui i motivi.

Tre anni fa il mio rapporto si è interrotto, ma come dico sempre equivale a essersi staccati da un figlio che oggi fa il suo percorso. Non ero d’accordo sul futuro “industriale“, avrei anticipato lo sbarco massiccio sul web, immaginato il Granchio non dei 25 ma dei 50 anni,  c’era stata una dura campagna elettorale, qualche screzio, avevo altre iniziative editoriali in mente e sono usciti, infatti, un paio di libri. A quello sul sangue infetto – che era già in lavorazione – non avrei potuto dedicare il tempo necessario

Oggi che molti si prodigano nel prendersela con “il Granchio” io posso solo fare gli auguri per queste nozze d’argento, invitando a non dimenticare mai che chi amministra va pressato – sempre e comunque, a prescindere da chi sia – che su battaglie come legalità e trasparenza anche le piccole cose sono importanti, che scrivere sul web impone un’attenzione anche maggiore di quella del settimanale, sia nel dare le notizie, sia nel modo di esporle. E’ giusto arrivare prima e cercare “click“, è doveroso arrivare per bene, dopo le verifiche, scrivendo con meno errori possibili se proprio non è possibile senza. E’ necessario limitare il “copia e incolla” e approfondire, sempre.

Infine un pensiero per chi ci ha lasciato. Sergio Moscatelli fu il primo grafico, aveva un “Mac” che sembrava un’astronave, lo scanner avrebbe “letto” i pezzi mettendoli in pagina. Ma le macchine da scrivere erano “sporche” e lo scanner impazziva… Ci mise professionalità e pazienza, soprattutto dovette piegarsi ai “floppy disk” morbidi….

Guglielmo Natalini fu tra i fondatori della cooperativa, un pungolo in più occasioni, un personaggio che voleva pubblicato dove e come diceva lui i suoi lunghi interventi…. Ci scontrammo spesso, sempre con grande onestà intellettuale.

Eugenio Mingiacchi, senza il quale non saremmo qui. L’imprenditore, quando si stava per chiudere, disse che ciascuno di noi avrebbe dovuto investire su quella sgangherata impresa, che il sabato il giornale doveva essere in edicola ma il lunedì le cambiali andavano pagate, trasformò quel gruppo di illusi in un’azienda. Anomala, come noi stessi la definivamo, ma azienda. Ci ha lasciato troppo presto, abbiamo dedicato al suo nome  borse di studio che fra l’altro hanno fornito dei lavori a queste città. E’ un’iniziativa che non va dimenticata, spero che presto torni la borsa di studio “Eugenio Mingiacchi”.

Auguri al Granchio, ma anche ad Anzio e Nettuno. Questo giornale avrà pure sbagliato, ma resta una delle poche certezze in queste martoriate città.

Da Leicester a Paternò, una riflessione necessaria

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La festa di Paternò (Foto Fibs – Lauro Bassani)

Due imprese sportive, due mondi neanche lontanamente paragonabili e una riflessione necessaria per chi fa il lavoro di giornalista. A maggior ragione mentre si discute un contratto che dovrà necessariamente rivedere le arcaiche figure costruite su organizzazioni redazionali superate dalla storia grazie alle moderne tecnologie, ma anche riconoscere le nuove professionalità.

Da Leicester, lo scudetto inatteso della Premier League inglese e di un mondo milionario, a Paternò, lo scudetto del piccolo mondo del baseball di casa nostra, fra l’altro nella “A” federale, nemmeno nel massimo campionato, dove non gira un euro. Impresa la prima, mai vinto un titolo, con un allenatore che mai aveva centrato un risultato simile, per giunta in una città che a cospetto dei milioni e del blasone di Manchester, Chelsea Liverpool e compagnia ha realizzato un sogno. Impresa la seconda, perché vincere in Sicilia non è mai facile, perché il baseball italiano è quello che è, perché si partiva da 2-0 nella “serie” a favore bel Bollate e perché per arrivare fino in fondo è stata necessaria addirittura una sorta di colletta come racconta Il Fatto Quotidiano“.

In mezzo il giornalismo che cambia ma che – a parere di chi scrive – continua a servire. Immaginiamo solo qualche anno fa cosa avrebbero fatto le tv di mezzo mondo per entrare e avere l’esclusiva della possibile festa dei giocatori del Leicester. Invece hanno atteso, tutti, che Vardy postasse sul suo profilo twitter le immagini e le hanno rilanciate. Ecco, vedi, i giornalisti non servono più… basta uno bravo tecnologicamente e via. Alt, fermiamoci. Era una festa, ma ammettiamo che i giocatori decidessero di denudarsi, di fare qualche rito strano o quello che si vuole. Chi sarebbe chiamato a “mediare” tra quelle immagini e il pubblico? Certo, uno va da solo sul profilo del giocatore e vede ciò che vuole, ma la necessità – in questo come in altri molteplici casi – di un giornalista che valuti è indispensabile. Certo, oggi è molto più semplice avere foto, video, messaggi e quant’altro senza spostare troupe, scomodare corrispondenti (i servizi per Repubblica da Leicester li ha fatti il bravo Alessandro Allocca, collega nato e cresciuto alla “scuola” di provincia, collaboratore della testata con poche tutele)  ma spesso avere tutto e subito non è sinonimo di qualità, verifica delle fonti, autorevolezza. Del racconto, delle immagini, dei pezzi che qualcuno vorrebbe finissero su un giornale o in un sito grazie a un programma che “pulisce” agenzie che spesso sono già dei semplici copia e incolla.

Dall’Inghilterra all’Italia, dalle Midlands alla Sicilia. Domenica il tour de force della finale scudetto è stato raccontato in diretta grazie alla buona volontà di un grande appassionato – giocatore e poi tecnico, da anni trasferitosi da quelle parti – come Arcangelo Cibati, in diretta con gli amici del “Bar del baseball” di Nettuno. Un tablet o smartphone, una linea internet e il gioco è fatto.  Perché dovrebbe andarci un giornalista? E’ tutto a disposizione…. Va tutto bene, ma se c’è una rissa, ci scappa una bestemmia o succede qualcosa che non è il caso di pubblicare. Ah no,  è noto: i cronisti sono degli impiccioni, montano casi, cercano notizie, a volte sono “scomodi” per i loro stessi editori….

Non sono tipo da difese d’ufficio della categoria, ma dalle due imprese così distanti tra loro sportivamente, economicamente, come impatto sociale, c’è da riflettere per chi questo mestiere vuole ancora farlo. Vuole andare, vedere, verificare, incrociare le fonti, raccontare, dare un servizio.

E’ chiaro che un editore punterà sempre a “tagliare“, cercherà nella tecnologia i costi più bassi, ed è a questo che le organizzazioni di categoria – dal sindacato che sta lavorando sul contratto a un Ordine che così com’è è superato dalla storia, fino a un istituto di previdenza dove si prova a chiudere la stalla quando i buoi sono scappati – deve saper rispondere. Senza fossilizzarsi sulle figure dell’attuale contratto, ma provando a dare risposte. Ai tanti Alessandro Allocca sparsi per il mondo e, di più, ai tanti che con le unghie e i denti a volte per  5 euro lordi, vanno ancora a cercare notizie. La tecnologia, i “personal media“, i profili facebook e le dirette possono darti delle informazioni – è pacifico – ma trovare le notizie era e resta altra cosa.

La stampa inglese e quella italiana

La stampa inglese e quella italiana

Questa riflessione è in parte condivisibile, molto spesso noi giornalisti sbagliamo e – quel che è peggio – facciamo fatica a riconoscerlo. Va sottolineato che esistono delle differenze – e come se esistono… – tra chi legge in Inghilterra e chi in Italia, di conseguenza cambia il mercato di riferimento. 

E non va dimenticato che qui facciamo i conti con “se l’ha detto l’agenzia...” o “la macchina è partita...” o, sempre peggio, “è su internet“. Va considerato, poi, che siamo sempre meno e verificare è più difficile di fare copia e incolla, poi ai vertici c’è sempre il timore di sbagliare o, peggio, la volontà di aggraziarsi questo o quel politico. C’è, più o meno consapevolmente, semplicemente il timore di fare il nostro mestiere. Che è quello di andare, vedere, raccontare. 

Ricordarlo, forse, eviterebbe qualche figuraccia, forse farebbe vendere qualche copia in più o avere più contatti su internet, ma l’Italia resta l’Italia e l’Inghilterra (o la Germania, gli Stati Uniti) è altro.