La signora con il tumore, costretta a pagarsi la colonscopia

Non entravo all’ospedale “Santa Maria Goretti” di Latina da tempo, ieri ci sono andato da paziente, per una visita programmata . Nei poliambulatori al di sotto di malattie infettive eravamo io e una signora: minuta, occhi chiari, tanta voglia di raccontare di sé, dei suoi malanni e dei disagi che affronta. La chiamerò Cristina e nei giorni delle polemiche sulle liste d’attesa o della prosopopea sugli “Stati generali della salute” mi va di raccontare la sua storia.

Perché è una di quelle – tante, tantissime – che i giornali hanno “dimenticato” di seguire, presi come sono dai diktat di chi comanda che preferisce le veline alla vita reale. Non mi stupisce, è un mondo nel quale ho vissuto a lungo e so come funzionano certe cose. Però le storie come quella di Cristina “fanno” ancora notizia e qualcuno dovrebbe continuare a preoccuparsene, per rispetto della professione che facciamo.

Ci provo io, sommessamente. La signora in questione grazie alle prevenzione ha scoperto anni fa un tumore al seno, è stata operata e segue regolarmente lo screening. Nel frattempo un altro tumore è comparso, stavolta al colon, quasi per caso come mi ha raccontato lei, facendo accertamenti per un’altra patologia (“non mi faccio mancare niente”). Anche in questo caso, è stata operata e le sono stati prescritti esami diagnostici di controllo. Nello specifico la colonscopia che deve eseguire con calma, entro un anno. “Però non c’è posto, non me la prenotano, così sono costretta a pagarla”. Sì, avete capito bene. Una donna operata di tumore, con il famigerato codice 048, costretta a pagare la colonscopia di controllo.

Mentre i direttori generali e sanitari delle Asl ripetono come un mantra che è necessaria la “presa in carico” dei pazienti, quelli fragili in particolare o con comorbidità, Cristina deve trovare per conto proprio un centro dove fare la colonscopia e pagarsela. Non è questione di Rocca o di Zingaretti che l’ha preceduto, attenzione, ma di civiltà. Quella che la politica e i supermanager che nomina, hanno dimenticato. Una normale “presa in carico” dovrebbe prevedere che la struttura alla quale la donna è affidata, le programmi e prenoti direttamente l’esame. Invece no, una cittadina malata di tumore deve fare il giro delle sette chiese e pagarsi pure la prestazione.

Direte “ma credi a quello che ti ha raccontato”? Sì, ma ho pure verificato ed è la stessa regione nel suo “Monitoraggio sui tempi di attesa” (aggiornato al 27 agosto, mentre scrivo è il 19 novembre 2025) a riconoscere che l’indice per la colonscopia è pari a 55. Il che significa che la prima prestazione utile entro l’anno, Cristina la può anche ottenere ma non a Latina (indice 49,7, quindi attesa ancora più lunga rispetto alla Regione).

E se è una donna sola che non guida più come un tempo? Cerca una soluzione vicino casa e paga. Per dovere di cronaca è giusto dire che la stessa prestazione, tenendo conto dell’offerta in tutto il Lazio ha un indice di 80 se urgente (sono quelle che possono prenotare direttamente i medici e vanno eseguite nell’arco di 72 ore), scende a 55,4 se breve (da fare entro 10 giorni), a 52,4 se differibile (entro 60 giorni) e risale a 59,3 se programmata ovvero da eseguire entro 120 giorni.

E questa storia della colonscopia apre un’altra pagina. La collega Linda Di Benedetto ha scritto sul Fatto Quotidiano che la Regione Lazio fornirebbe dati alterati rispetto alle liste d’attesa. Il presidente Rocca si è difeso, sostenendo di essere nel giusto.

In realtà basta recarsi a uno sportello Cup o telefonare al Centro unico di prenotazione per scoprire che le cose stanno in questo modo innegabile e beffardo: il paziente di Anzio ha una prescrizione con priorità B. Chiama e in un ambulatorio vicino casa non c’è posto, può spostarsi e chiede per altri centri nel raggio di una trentina di chilometri (Aprilia, Latina) o magari Roma dove può andare in treno ma entro 10 giorni non c’è posto. Anzi sì, a Cassino o Viterbo. Risultato? Il paziente dice “no grazie”, il sistema regionale di prenotazioni dice “ok, ma io entro 10 giorni te l’avevo garantita e sei tu che hai rifiutato”. Con la conseguenza che il paziente si rivolge al privato e la Regione dice di rispettare i tempi.

Qualcuno lo spieghi a Cristina e a quanti, come lei, si sentono presi in giro quando gli si racconta che sulle liste d’attesa è tutto a posto. Ripeto, non ne faccio e non ne ho mai fatto una questione di chi guida la Regione ma di onestà intellettuale.

Infine, per la medesima onestà, è giusto dire che le liste sono solo uno dei problemi e che se domani mattina apriamo un servizio, tra una settimana le attese si creano. Questo non vale, però, per le situazioni come quella di Cristina e di tanti altri. Non può e non deve valere.

La bomba a Ranucci, la finta solidarietà e il bavaglio quotidiano

L’unanime condanna per l’attentato a Sigfrido Ranucci era scontata. La solidarietà che arriva da chi quotidianamente compie, in Parlamento e fuori, atti per limitare la libertà di stampa (dalla norma Cartabia al divieto di pubblicare alcuni documenti) è nella stragrande maggioranza dei casi, finta. È un’occasione, però, per riflettere su quanto accaduto e sul bavaglio quotidiano a chi è rimasto a fare questo mestiere. Bavaglio che arriva da fuori, ma spesso trova spazio anche dentro le redazioni. Andiamo con ordine, però.

La bomba fatta esplodere l’altra notte è un atto di gravità inaudita. L’ultimo attentato del genere fu contro Maurizio Costanzo nel 1993, in via Fauro a Roma, nei pressi del teatro “Parioli”. La matrice di quella bomba era mafiosa, quella che riguarda Ranucci viene ricondotta ad ambienti ultras che in molti casi non si discostano da quelli della criminalità organizzata. Spesso con il beneplacito di certa politica, la stessa che oggi esprime solidarietà pelose. Non c’è da andare molto lontano, a Latina il legame con i clan nomadi negli anni della serie B e della mancata promozione in A è stato accertato nelle aule di giustizia.

Il punto non è questo, attenzione, bensì sottolineare come la bomba al conduttore di Report sia solo la punta – pericolosissima, certo  – dell’iceberg. Perché in Italia ci sono colleghi sotto scorta – da Federica Angeli a Lirio Abbate fino ad altri meno noti – e giornalisti quotidianamente minacciati, sbeffeggiati, insultati. Il rapporto di Ossigeno per l’informazione parla di 7.555 casi dal 2006 a oggi, per l’indice internazionale di Reporter senza frontiere l’Italia è al 49° posto su 112 Paesi, scende di tre posizioni, è dietro a nazioni come Suriname o Tonga e ottiene la performance peggiore  dell’Europa occidentale.

Ci sono stati, negli anni, 30 morti ammazzati, quelli che sempre Ossigeno ci ricorda “cercavano la verità” poi gli attentati, le intimidazioni, tutto ciò che si “vede”, mentre ogni giorno un collega riceve una querela che nella quasi totalità dei casi sarà archiviata. Peggio, riceve una richiesta di risarcimento del danno che gli fa dire “meglio lasciar perdere”. Perché certi provvedimenti arrivano a chi prova ancora, tra mille difficoltà, a fare questo mestiere. Soprattutto in realtà locali, dove non ci sono alle spalle gli studi legali messi a disposizione dagli editori, né hai l’attenzione che può avere Report. Quando a Stampa Romana mi occupavo di libertà di informare abbiamo messo a disposizione un piccolo strumento, un decalogo per difendersi da queste azioni, una piccola goccia nel mare.

Nelle ore successive all’attentato c’è una voce che sento di condividere. Quella di Francesco Storace. Le nostre idee politiche sono diverse, ma già quando da cronista lo seguivo perché era presidente della Regione, mi era simpatico. Ha detto la cosa più giusta: solidarietà a Ranucci? Cominciate a ritirare le querele contro di lui.

 Fatelo, aggiungo io, nei confronti di tutti quelli che hanno avuto solo il “torto” di raccontare cose che non siamo più abituati a leggere e diventano “scomode”. Coloro che cercano, semplicemente, di raccontare “la verità sostanziale dei fatti” secondo la legge che istituisce l’Ordine dei giornalisti. Quelli che cercano carte, verificano e poi pubblicano. Tutto questo mentre in Europa si parla di “Slapp” (azioni legali temerarie) e l’Italia resta in finestra.  

E qui veniamo all’ultimo punto, al bavaglio che nelle redazioni arriva dai vertici ovvero dagli editori  (ma è noto che in Italia hanno tutti ben altri interessi, per i quali quando serve usano i loro giornali), da qualche “capo bastone” più realista del re, da noi stessi che come dice proprio il rapporto di Reporter senza frontiere, ci autocensuriamo.

Nelle ore successive all’attentato a Ranucci “Il Sole 24 ore” è uscito in edicola nonostante lo sciopero proclamato dai redattori all’unanimità. Che ci sia un’intervista, fatta da una collaboratrice esterna, alla presidente del consiglio Giorgia Meloni, è un dettaglio. Ai tempi in cui lavoravo a Latina Oggi, Peppino Ciarrapico, da “padrone” qual era, degli scioperi se ne fregava e mandava il giornale in edicola lo stesso. Sono passati oltre 25 anni, è stato un precursore evidentemente. Vogliamo parlare dei collaboratori offesi con articoli pagati da fame? Sull’equo compenso, gli editori scappano. Anche offrire 5 euro a pezzo favorisce il bavaglio, capite da soli il perché.

A questo si aggiunge lo svilimento della professione che per inseguire le “parole di tendenza” o la “storia” ad ogni costo (trovare chi dica, ad esempio, che Tizio indossava un gilet giallo quando è evidente che il suo era rosso), perde di vista la notizia e manda a quel paese quel che resta della credibilità della professione.  Con la conseguenza che si perde di vista il lettore. Quello che Indro Montanelli ricordava essere “il padrone” e che Joseph Pulitzer, 75 anni prima,  indicava come “il committente”. È una deriva che va avanti da tempo, purtroppo, peggiorata dall’avvento dei social ai quali molti che non aprivano un quotidiano prima, si affidano come avessero la verità assoluta e poi emettono “sentenze”. Su questo Umberto Eco ha descritto perfettamente il fenomeno

È proprio per tale motivo che le inchieste di Report, ma anche quelle di Piazza Pulita, ciò che ci raccontano tanti colleghi dalla “prima linea” di redazioni (spesso locali, piccoli siti di provincia) che con coraggio e carte alla mano non si tirano indietro, deve essere preservato. Altrimenti la sacrosanta solidarietà a Sigfrido Ranucci (e ai colleghi della sua redazione) resta un mero esercizio retorico.

Addio a Emmanuel Miraglia, un “faro” nella sanità e quell’abbraccio paterno…

Ho fatto come lui, ho preferito aspettare. Lo chiamavi per sapere dell’accordo con Regione, Università e Asl finalmente raggiunto ma rispondeva “non è il momento”. Sul “taglio” potenziale di alcuni posti letto… “meglio aspettare” e via di questo passo. Lo faceva ogni volta, non prima di essersi complimentato perché avevo saputo e avevo tutti gli elementi a disposizione.

Avrei potuto scrivere, ma senza la posizione di Emmanuel Miraglia – presidente del Gruppo Giomi scomparso una settimana fa – non sarebbe stata la stessa cosa. Perché averla, una sua dichiarazione, era un valore aggiunto. Alcune cose uscivano lo stesso, “off record” come diciamo nel nostro mondo, ti dava conferme o indicazioni importanti. Avere la sua fiducia, per chi fa la nostra professione, non era semplice. Anzi.

La sua scomparsa mi ha profondamente addolorato, perché come in molti casi della vita da uno scontro nasce poi un rapporto sincero e leale. Con lui, posso dirlo, un’amicizia. Molti hanno ricordato l’imprenditore illuminato ed Emmanuel era certamente un “faro” nel mondo della sanità (“basta con questa storia dei privati, diamo un servizio pubblico fondamentale”), hanno sottolineato i suoi successi, ricordato che chiedeva amore e passione in tutto ciò che si faceva. A me piace sottolineare degli episodi, l’ultimo qualche settimana fa…. “Bravo, non mi hai invitato alla cerimonia delle borse di studio….” e lui “ma sei un uomo ormai troppo impegnato per queste cose…”.

Era iniziata male, tanti anni fa, lavoravo a Latina Oggi e un’indagine della Finanza riguardava l’Icot. Ne scrissi, se la prese, andai in istituto e trovai il “gotha” ad attendermi. Io, giovane cronista, e lui che incuteva un certo timore, il professor Pasquali Lasagni, altri dirigenti. Non alzò la voce (e non glie l’ho mai sentita alzare) ma spiegò con fermezza le sue ragioni, poi “però la prossima volta chiama prima…” Quell’inchiesta finì in una bolla di sapone, ma da quel giorno ci sentivamo ogni volta che si ponesse un problema relativo all’istituto o al gruppo o quando avevo da chiedere consiglio su alcune vicende sanitarie singolari. Quando chiamava, invece, la notizia era assicurata. Come l’unica volta che lo vidi in una certa difficoltà, lui sempre tutto di un pezzo e apparentemente algido: “Giovanni, quest’anno per la prima volta non faremo assunzioni stagionali durante le ferie, non ne abbiamo la possibilità”. Non ricordo quanti anni sono passati, ma era un momento di crisi, dovuto al fatto che la Regione non erogava i fondi e l’azienda, la “sua” creatura, viveva un momento difficile “Però, ricorda, noi non abbiamo mai cacciato nessuno”. Ed era vero, verissimo. Così come la sua lungimiranza ha portato all’intesa con La Sapienza, alla realizzazione di uno dei primi “hospice” a Latina, alla Rsa. Perché puoi nascere come istituto ortopedico, ma l’evoluzione delle tecniche riduce i tempi di intervento e quelli di degenza, così devi necessariamente riconvertire. Nel periodo Covid le sale operatorie dell’Icot sono state a disposizione del “Goretti” da un giorno all’altro e pazienza se sui conti, forse ancora oggi, non si trova la “quadra”. Da Latina al resto del gruppo, invece, i rapporti con la Cina, quelli con la Germania, le Rsa che diventano anche luogo di vacanza, gli istituti d’eccellenza anche a Cortina e Firenze, la nutraceutica e chi più ne ha, ne metta.

Dicevo del nostro rapporto, però, ad esempio di quando gli dissi che mi sarei candidato sindaco ad Anzio e rispose “sei matto, però chi ci mette la faccia in una situazione difficile ha tutta la mia stima”, poi ridendo “ah ma quella per te ce l’avevo già prima”. I complimenti per la seconda laurea, in comunicazione scientifica e biomedica? “Ora sì che sei proprio sua sanità”, quindi l’abbraccio quando da Latina andai a Frosinone per il Messaggero (“ma continua a seguirci”), la recente scelta di lasciare il giornale, i libri sul sangue e le aggressioni ai medici, le chiacchierate su un mondo dell’informazione radicalmente cambiato, i consigli di fronte ad alcune vicende con la Regione. Emmanuel è stato un “faro” nel mondo della sanità, certamente, ma per chi lo immaginava distaccato, freddo, calcolatore, c’è un episodio su tutti che mi piace citare: Expo di Milano 2015, giornalisti invitati per l’incontro sul distretto sanitario del basso Lazio che Unindustria presentava proprio lì. A farlo era Fabio, uno dei figli, allora presidente dell’associazione degli industriali a Latina, il quale evidentemente “sentiva” quel momento. Emmanuel aveva capito, così fece gli ultimi passi verso la sala della presentazione prendendolo sottobraccio, con affetto, paternamente. Ecco, a me piace ricordare quel gesto per riassumere chi fosse, con il cruccio – adesso – di non poter fare quell’incontro che ci eravamo promessi ad Anzio.

Abbraccio ancora forte Fabio e Massimo, i figli con i quali ho più avuto a che fare per ragioni di lavoro, tutti gli altri familiari e idealmente l’intera famiglia del gruppo Giomi che ha perduto – come il resto del mondo della sanità – una persona illuminata. Io, un amico sincero.

Io, Petrocchi e la battuta: “Ricordati di me quando sarai Papa “

Il cardinale Petrocchi (foto vatican.va)

Tra i cardinali che eleggeranno il nuovo Papa, dopo la morte dell’amato Francesco c’è anche Giuseppe Petrocchi. Come accade nelle migliori occasioni, per conoscersi e apprezzarsi occorre prima fare una discussione. Con lui, vescovo di Latina dal ’98 al 2013, andò proprio così.

C’era la Goodyear che chiudeva, la Cirio che se ne andava, il vescovo venuto da Ascoli Piceno – e al quale rubarono la bicicletta mentre era in Curia per la nomina che l’avrebbe portato in terra pontina – aveva preso una posizione netta.

Non solo era andato a celebrare messa tra gli operai – scena magistralmente ripresa nel film “Il posto dell’anima” – ma messo nero su bianco parole pesanti sugli industriali che dopo aver preso a mani basse dai territori, decidevano di andarsene senza preoccupazioni. O che mentre investivano su squadre di calcio, lasciavano gli operai a casa.

Lavoravo a “Latina Oggi” e come titolo di apertura scegliemmo “Vescovo contro gli industriali”. Non ricordo quanto durò la sua chiamata, so che a lungo cercò di spiegarmi – con il suo inconfondibile accento – che “un vescovo non può essere contro, può essere per” e io che ribattevo che mai, prima di allora, eravamo abituati a un pastore che dicesse le cose come stavano. Continuava a darmi del tu e io del lei, alla fine presi la palla al balzo e dissi “facciamo così, ci diamo del tu e ci mandiamo anche a quel paese, ma ora spero ci siamo chiariti”. Se ne uscì con una risata e da allora il nostro rapporto è stato sempre molto franco. Cercò di spiegarmi che la “chiesa più una” era la strada da seguire per la diocesi di Latina, Sezze, Priverno e Terracina ma francamente non mi applicai molto.

Ci siamo salutati quando andò via, destinato a L’Aquila, poi al suo ritorno per l’ordinazione episcopale di don Felice Accrocca, quindi per un convegno quando era già cardinale e lo accolsi dicendo “ricordati di me quando sarai Papa“. Rispose “Sei sempre il solito“. Pare abbia poche possibilità nel conclave, ma hai visto mai?

ps, a proposito di Papa Francesco, resta l’unico finora in grado di farmi tacere. Durante la sua visita al Messaggero l’8 dicembre 2018 stringendogli la mano non sono riuscito a dire una parola. Avrebbe meritato un “Sei grande”, ma penso sapesse già di esserlo e non ci volevo certo io…

“Prendersi cura”, lo straordinario esempio di Gianna

C’è un concetto che in sanità ormai è di uso comune, quello del “prendersi cura”. Se vogliamo “farsi carico”, più ancora essere empatici. Sono tutte caratteristiche che Gianna Sangiorgi aveva e che nella sua vita ha messo a servizio degli altri. A partire dai più deboli.

Lo ha fatto quando certi termini erano ben lontani dall’uso comune tra chi si occupa di salute. Lo ha fatto mettendosi a disposizione, dalla “prima linea” del Tribunale per i diritti del malato. Lo aveva aperto e ne è stata l’anima fino all’ultimo, con una capacità di comprendere le ragioni di chi denunciava e di andare a sollecitare delle soluzioni che sembrava innata.

Difficilmente la sentivi parlare di “malasanità”, ma guai a non dar retta alle sue segnalazioni. Ne sanno qualcosa al vertice del “Goretti” e a quello della Asl di Latina. Ne so qualcosa io, se tardavo a scrivere una sua segnalazione. Non mollava, fino a quando arrivava una risposta. Fino a quando non le spiegavano, ad esempio, il motivo perché la Tac andava in pronto soccorso anziché in radiologia o la nuova risonanza era diversa da quella che si attendeva. Finché non pubblicavo ciò che mi aveva raccontato, del quale potevo fidarmi ciecamente.

“Ah, oggi passi perché non hai trovato niente…” diceva con un sorriso se mi affacciavo nel suo ufficio (che fatica per ottenerlo) al piano terra dell’ospedale. E lì mi raccontava a cosa stava lavorando, al rapporto in preparazione di Cittadinanzattiva, ai primi dati che emergevano sapendo che poteva fidarsi anche lei, non li avrei “bruciati”. Aveva portato il suo metodo e la sua testardaggine anche nell’esperienza di Latina bene comune.

Aveva in qualche modo collaborato con i miei libri, fornendo spunti interessanti (grazie ancora, davvero), non era potuta venire alla presentazione dell’ultimo sulle aggressioni ai medici ed eravamo rimasti per un’altra occasione. Quando l’1 febbraio le avevo fatto gli auguri per i suoi 75 anni mi aveva “cazziato” perché andando via da Frosinone non le avevo ancora dato il contatto che le serviva per un altro dei suoi dossier sugli ospedali.

Lo avevo fatto, scusandomi, e ci eravamo fatti ancora una risata. “Aho – mi aveva detto – ora vai a riposarti al Comune” e io avevo risposto: “Basta che non trovo chi è capace a fare contestazioni come te”. Purtroppo è stata l’ultima tra di noi ed è un gran peccato.

La sanità pontina (e non solo) perde una colonna portante, i malati e i loro familiari ancora di più. Perde Gianna, un esempio straordinario di sapersi “prendere cura”.

Ciao Rosanna e scusa se quella sera non mi sono alzato in piedi

Ora sto bene”. Me lo avevi detto l’ultima volta che ci eravamo visti a Nettuno, estate 2023 credo, con un sorriso rassicurante. Il tuo, cara Rosanna, quello inconfondibile e che ti accompagnava da sempre. Mi ero alzato dal tavolo, quella sera, solo dopo aver visto tua madre, dietro di te. Mi avevi redarguito “ah, per lei sì e per me no…”. L’avevo buttata in “caciara”, come avviene quando capisco di aver commesso un errore. Sì, Rosanna, avevo sbagliato e in questo triste giorno lo riconosco ancora di più. Abbraccio forte mamma, tua sorella Giovanna, Roberto, i tuoi adorati nipoti e sono – mi viene da dire siamo, tutti quelli che ti hanno conosciuto – profondamente addolorato.

C’eri, agli albori del Granchio, quando con Giovanna, insieme ad Elvira, Ivo, Claudio e Nino ci imbarcammo in quell’avventura. Era la fine del 1991. Ti avevo già vista girare – ma posso sbagliare – per la redazione con annessa tipografia di “Prima Pagina”, dove un po’ tutti siamo passati. Volevi collaborare con quel settimanale in uscita e posso dire senza tema di smentita che lo hai fatto magistralmente, senza mai risparmiarti. Che “sudata” alla prova simulata dell’esame al Centro servizi, una domenica mattina. C’erano ancora le macchine da scrivere. E quante “chiusure”, pezzi che “ecco sta arrivando“, titoli, foto da trovare, storie…

Il mondo della comunicazione è stato il tuo, sei andata a “prendertelo” quando nacque la facoltà dove sei stata ricercatrice e dove scoprii – con gioia – che avevi anche un ruolo di rappresentanza. Mi aiutasti nel cercare di prendere la seconda laurea che rimandai (ho da qualche parte una cartella con scritto di tuo pugno “il sogno”) e mi facesti i complimenti quando la presi, cambiando leggermente registro rispetto all’idea iniziale.

Al decennale del Granchio facesti intervenire una docente di Scienze della comunicazione che venne a parlarci dell’importanza dei media locali, introducendo il concetto di “glocal”. Quando, invece, il progetto che presentasti con altri per i 20 anni del nostro giornale non venne scelto, fosti la prima a complimentarti con chi aveva vinto. E a metterti a disposizione con l’idea legata alla memoria del territorio. Perché la stampa locale raccoglie storie di vita senza eguali e lo sapevi bene. Ma oltre il giornalismo, che ti ha visto protagonista al Granchio e all’ufficio stampa del Comune di Nettuno (“sei il primo al quale telefono, dammi qualche consiglio”) sei stata importante nel volontariato e nel mondo cattolico. È vero, ad Assisi ho sempre detto che una volta sarei venuto, ora mi impegno ad andarci con il tuo ricordo.

E scusa se non l’ho fatto quella sera a Nettuno, però mi alzo in piedi adesso: davanti alla tua forza d’animo nell’affrontare la malattia, alla tua dignità, alla gratuità verso il prossimo, all’impegno civile, alla voglia di far conoscere mondi che sembravano distanti da noi, al modo di affrontare ogni avversità. Davanti al tuo indimenticabile sorriso. Ciao Rosanna!

“Ma solo”, ci rivediamo in Ciociaria

Quattro anni di Sardegna vuol dire, se uno ci vive dentro, insieme, almeno imparare il dialetto…” Fabrizio De Andrè perdonerà se uso questa sua frase che introduceva il brano “Zirichiltagghia” per dire che 3 anni di Ciociaria, standoci dentro, ti consentono di imparare qualcosa anche del dialetto.

Tre anni che hanno permesso, soprattutto, di apprezzare una terra meravigliosa. Ho salutato i collaboratori della redazione del Messaggero (è la foto sopra), i colleghi con i quali ho condiviso questo periodo nella prima linea straordinaria rappresentata dal giornalismo “di prossimità“. Il più affascinante e difficile, perché devi stare molto più attento di quelli che l’indimenticato Gigi Cardarelli chiamava “inviati di un giorno“. Quelli che arrivano, scrivono, se ne vanno e non li vedi più.

No, in provincia le persone delle quali scrivi le incontri quotidianamente e quando accade qualcosa – nel rispetto dei ruoli – devi sempre fare il tuo mestiere, ma proprio per questo hai il dovere di farlo meglio possibile. Cercando sempre di verificare tutto e bene, di avere le fonti giuste, il modo migliore per dire che i giornalisti – se fanno questo – servono ancora al tempo della “disintermediazione”. Spero di averlo fatto in questo triennio, così come in passato.

Fare il capo di una redazione è un impegno importante, soprattutto in un territorio vasto come quello della provincia di Frosinone che conta 91 comuni e che ho avuto la fortuna di girare in lungo e largo. Se non sono stato a Terelle mi perdoneranno, se mi è mancata Vallecorsa o Strangolagalli, so con chi prendermela (!). Ho scoperto comunque un territorio affascinante, ricco di storia, di tradizioni, capace di andare oltre i campanili quando c’è da decidere qualcosa per il territorio. Uno spirito di appartenenza che non ho riscontrato a Latina, nelle precedenti esperienze professionali, o nella “mia” Anzio. In Ciociaria no, fino a un minuto prima si spaccano ma quando c’è da decidere trovano una quadra. Chissà se riusciranno per la Tav, ad esempio, ma è un augurio sincero che lo facciano. Come la mobilità sostenibile nel capoluogo o una soluzione per la vertenza Stellantis.

Ci sono tanti episodi che potrei raccontare di questi tre anni, molti sono legati alla cronaca (“una priorità“, come ripetevo ai collaboratori) altri ai momenti straordinari come la promozione del Frosinone in Serie A (forza, si può e si deve mantenere la B) o il recente G7 o con la visita del Presidente Mattarella. Altri ancora per le persone incontrate, dai ragazzi del Centro disabili che ci hanno regalato la M stilizzata del Messaggero che fa bella mostra in redazione, a chi aveva difficoltà e ha deciso di aprirsi e raccontare attraverso le nostre pagine. All’esperienza con i detenuti (grazie, Teresa) a chi siamo riusciti ad aiutare con un nostro articolo o ci ha seguito sui social segnalandoci degli errori quando c’erano, fino a chi ci ha spronato ad andare avanti su alcune iniziative, a quanti hanno coinvolto me oppure i colleghi in iniziative promozionali o culturali. Nel fare la “classifica” degli eventi estivi dell’ultima stagione, per esempio, abbiamo faticato a “bocciare” qualcuno perché sono ormai tradizioni consolidate – non lo scopro io – quelle che si tengono a Veroli oppure ad Anagni, a Ferentino oppure ad Atina, in Val Comino, a Sora, Isola Liri o da Collepardo ad Alatri (ma quante Madonne ci sono da festeggiare a Tecchiena piuttosto che al Laguccio o Mole Bisleti?)

Ho apprezzato il lavoro ancor più di “prossimità” – quello sì – che svolgono le diocesi, le parrocchie (un grande grazie a don Paolo e don Luca) o i tanti volontari. Seguendo come sempre da vicino il settore sanitario, ho avuto modo di conoscere professionisti importanti e servizi di eccellenza anche se mi è capitato di raccontare qualche caso di malasanità. La responsabilità dei quali, attenzione, sono solo all’ultimo di medici e infermieri, perché spesso a monte c’è una mancata programmazione unita alla carenza di mezzi e personale.

Ho conosciuto imprenditori illuminati, amministratori pubblici che tra mille difficoltà cercano di dare risposte, sindaci che non hanno mai alzato la voce di fronte a ciò che scrivevamo, dirigenti scolastici appassionati (Maria Rosaria su tutti, altri mi scuseranno), uffici stampa disponibili, investigatori capaci. Così come i colleghi delle altre testate, con i quali c’è sempre stato grandissimo rispetto e collaborazione, sapendo che ciascuno di noi sarebbe stato comunque soddisfatto se fosse riuscito a dare un “buco” all’altro. Perché questo mestiere è così e quando si tratta di notizie, arriviamo in capo al mondo. In provincia se ne trovano tante, tantissime, peccato che ormai si inseguano semplicemente i click e questo lavoro sia radicalmente cambiato. L’ho fatto avendo sempre a mente quello che diceva Indro Montanelli e cioè che “il nostro padrone è il lettore”. L’ho fatto preoccupandomi della deontologia professionale, del rispetto delle persone a maggior ragione quando sono in difficoltà.

Ho ricevuto apprezzamenti, andando via, anche da chi non immaginavo. Porto nel cuore ogni frase dei colleghi, ogni messaggio, i versi che mi hanno consegnato. Spero di aver fatto il miglior giornale possibile con quello che avevo e di una cosa sono certo: l’ho fatto con la massima onestà intellettuale e la coscienza a posto.

Conoscevo l’accoglienza della Ciociaria, ho imparato ad apprezzarne la “tigna”. Sapevo della bellezza dei paesi, ho apprezzato il fatto di conoscerli meglio e quanta passione ci mette chi li racconta ogni giorno. Sono i corrispondenti di provincia, quelli che mi hanno fatto commuovere di più e senza i quali nessun giornale sarebbe realizzabile. Anche nell’epoca del web. A loro va il mio grazie più grande.

Ma solo” è un intercalare che appunto, se ci vivi dentro, impari. Così come altre espressioni che ogni tanto uso, ormai, nel mio parlare quotidiano. La provincia è bella anche per questo. So che Annalisa (che mi ha fatto scoprire Tecchiena, mai confonderla con Alatri) mi “litiga” – come si dice qua – perché vado via dalla Ciociaria senza essere ingrassato, nonostante le porzioni luculliane che in ogni occasione mi sono state offerte ovunque fossi invitato. So che con Stefania e Mario – che conoscevo da prima e sono stati sempre un punto di riferimento in questo periodo – abbiamo già almeno tre appuntamenti l’anno (si comincia dal carnevale….) E insieme a loro con Maria e Daniele, perfetti padroni di casa. Grazie! Potrò fare a meno del “Pezz de Pane” di Roberta, innamorata come pochi della sua terra e ambasciatrice in Italia dei prodotti locali? Assolutamente no.

Sento di mandare un abbraccio immenso a Federica, la mamma di Thomas Bricca, il ragazzo ucciso ad Alatri a gennaio del 2023. Il suo racconto è stato uno dei momenti più difficili della mia carriera, la sua forza (e quella dell’associazione “Albero di Thomas”) un esempio di come da un dolore immenso possa nascere qualcosa di positivo per i giovani. Sarò in Tribunale il giorno della sentenza e spero ci siano tutte le persone che non accettano le prepotenze di ogni forma di criminalità presente, assai, anche in provincia di Frosinone.

Tanti mi hanno chiesto, in questi anni, “ti trovi bene a Frosinone“? a tutti ho risposto “ma solo...” Se siete arrivati a leggere fin qui, avrete capito il perché. Ci rivediamo in Ciociaria.

Ciao Francesco, è una promessa: non molleremo

Ci sono notizie che ti lasciano senza fiato. La morte di Francesco Squintu è una di queste. Un infarto fulminante lo ha portato via, mentre ad Anzio, a Villa Sarsina, si scriveva una pagina di storia alla quale aveva dato il suo contributo. Ho conosciuto Francesco sette anni fa, alla vigilia della mia candidatura, nella sede del Pd. Abbiamo trascorso insieme quei mesi, fino alla sonora sconfitta, scoprendo che avevamo una comune provenienza dai Radicali e che sui diritti ci trovavamo sempre. Ricordo gli incontri alla neuropsichiatria di Villa Albani per affrontare i problemi e cercare soluzioni, in un modo che solo chi vive in casa un’esperienza del genere può fare. Si era candidato, come tutti senza grande successo, non aveva mai mollato prima con Italia Viva e poi nel lungo e difficile percorso – tra un caffè e l’altro, a disegnare possibili scenari – che ha portato all’intesa per Lo Fazio sindaco, fino alla vittoria inaspettata. E per questo ancora più bella: “La strada è cominciata sette anni fa. Non si arriva alla fine se non si parte. Con pazienza si semina anche quando sembra inutile. Ciò che sembrava impossibile si è realizzato. Per me una fetta della gioia di ieri nasce da quella sconfitta” – ha scritto sotto un mio post che celebrava quel momento, il 3 dicembre.

E quando ho detto che il blog avrebbe cambiato pelle, settimana scorsa: “Serviranno sempre le tue parole. Che saranno da sprone alla nuova classe politica emergente della nostra Città, per non cadere negli errori del passato. Ripristinare la normalità amministrativa, un rapporto non più da sudditi con i Cittadini e un occhio al futuro“. Oggi vorrei tanto che queste parole non servissero, perché sono velate di tristezza.

Francesco, orgogliose origini sarde, dirigente d’azienda e consulente, poteva forse non essere “portodanzese” ma ha avuto a cuore questa città mettendosi sempre a disposizione e portando una passione senza eguali in tutto ciò che faceva.

Possiamo solo fare una promessa, caro Francesco: non molleremo.

Lo Fazio sindaco, qualche riflessione e poi mi taccio (non proprio eh…)

Scusate il ritardo“, avrebbe detto lo straordinario Massimo Troisi ma nell’ultimo mese e mezzo come immaginerete è successo di tutto. La campagna elettorale, l’elezione a sindaco di Aurelio Lo Fazio che ha dello storico, la sentenza al processo “Tritone”. Per le elezioni avevo promesso silenzio e così è stato, come sapete ho seguito da vicino la campagna di Aurelio, contribuendo a scrivere il programma, mettendo a disposizione il simbolo della civica che aveva (e ha) l’idea di realizzare #unaltracittà, immaginando le cose da dire e il modo in cui farlo, curando con il prezioso aiuto di un giovane professionista il palinsesto dei social.

Che potesse accadere il miracolo no, sinceramente non ci credevo. Già raggiungere il ballottaggio è stata un’impresa, vincere al secondo turno una gioia indescrivibile. Una “liberazione” dopo 26 anni nei quali, l’ho sempre ammesso, a qualcosa di chi ha governato la città avevo pure creduto. Sbagliando. Dopo 26 anni di un “modello di amministrazione” che non c’è mai stato, come ampiamente dimostrato dalla Commissione d’accesso e – se andiamo a ben guardare – già anni fa dalla relazione del Ministero dell’economia e finanze con i “famosi” 27 punti. O con le contestazioni e le relative condanne della Corte dei conti, fino al “sistema Anzio” che insieme a pochissimi altri denunciavamo. Fino alla vergogna dello scioglimento per mafia con un percorso di decadenza avviato nel 2013, con lo scontro fratricida della destra locale.

Nessuno ci credeva, invece è successo e come ho scritto su facebook sono felice….

L’ULTIMO DEI MOHICANI

A volerla raccontare da giornalista che da ormai 40 anni segue le vicende del territorio, Aurelio è L’ultimo dei Mohicani della prima repubblica. Nato e cresciuto democristiano, rimasto sempre dalla stessa parte nell’evoluzione avuta dalla Dc, ha attraversato da consigliere comunale e assessore ad Anzio, da consigliere provinciale e assessore in Provincia, da dirigente prima e direttore poi in Regione, un’era. Alla sua carriera politica mancava solo la ciliegina sulla torta che adesso è arrivata. L’intesa dopo il primo turno non era scontata, serviva un politico navigato per trovarla e c’è riuscito e gli elettori hanno premiato la scelta. Una squadra tutta nuova, per la quale il sindaco farà da “chioccia”. Non sarà una passeggiata, lo sa, ma la città ha scelto e non può deluderla. Lui, ma tutta la “squadra”. Chi c’è stato dall’inizio e chi è arrivato per il ballottaggio.

LA CAMPAGNA

La strategia è stata chiara: nessun attacco personale agli avversari, riportiamo al centro la politica, parliamo della città e alla città (“Anzio!” si è rivelato una scelta indovinata), rimarchiamo che c’erano altri e non noi dal 1998, puntiamo su una figura autorevole e spendibile come Aurelio, mandiamo messaggi positivi, rimarchiamo la responsabilità politica (il penale è affar loro) dello scioglimento. Mai una nota oltre le righe, l’idea della destra-centro che qualcuno ha fatto notare come un errore è stata un modo (riuscito) per attirare l’attenzione, così come il pensare politico e amministrare civico, qualche video sulle differenze nei programmi. Nell’epoca dei social, delle condivisioni, della disintermediazione, non abbiamo dimenticato che le parole restano importanti e farsi capire ancora di più. Per questo abbiamo ripetuto che il dialogo era centrale.

Adesso c’è una grande responsabilità, quella di continuare a farlo perché dire le cose in campagna elettorale è relativamente semplice, mantenerle molto più complesso.

LA GRANDE OCCASIONE

Sindaco e coalizione hanno davanti una possibilità senza precedenti, paragonabile a quello che accadde nel ’98 con l’elezione di De Angelis. In quella campagna elettorale si “sfilarono” dagli schieramenti tradizionali da una parte Piero Marigliani e dall’altra Maria Vittoria Frittelloni. De Angelis arrivò al ballottaggio che aveva 8 voti più dello sfidante, Giovanni Garzia, rappresentante dell’Ulivo, e vinse. Venivamo da due commissariamenti a stretto giro, il primo con Stefano Bertollini sindaco, il secondo con Renzo Mastracci. La città chiedeva un governo stabile e lo trovò, diversi dal centro-sinistra cominciarono a spostarsi (e l’elenco sarebbe lungo…) forti di consensi e preferenze. Ora può accadere il contrario, a patto che ci sia una differenza: non cadere nell’errore del potere fine a se stesso, nelle beghe interne, nell’arroganza del “ho vinto e faccio come mi pare”, nella mancanza di rispetto per l’avversario.

Se a destra devono fare una riflessione, è proprio questa: come hanno gestito, negli anni, consensi che ancora oggi le liste hanno dimostrato di avere. Forse le “guerre” alle quali abbiamo assistito (2013 su tutte), in danno alla città, alla fine sono state pagate. Ecco l’errore che non dovrà fare il “campo largo” e civico che sostiene Lo Fazio. Dall’altra parte, può essere quasi un bene aver perso: gruppo consiliare ristretto e praticamente tutto nuovo, giovani con i quali puntare al rinnovamento reale. Gli altri “Mohicani” della prima repubblica sono arrivati al capolinea politico e non hanno eletto propri rappresentanti in Consiglio. E’ il caso che capiscano che è arrivata l’ora di passare la mano.

TRITONE E LA “MALEDIZIONE” DEL PUPAZZO

In tutto questo sono arrivate, con molta calma e tempi poco degni di un paese civile, la sentenza sulle incandidabilità e quella del processo “Tritone”. Quest’ultima, in particolare, ha riconosciuto l’aggravante del metodo mafioso. Io continuo a pensare quello che ho sempre sostenuto e cioè che i risvolti giudiziari esulano da chi ci ha portato a questa condizione e ha precise responsabilità politiche. Per aver fatto mettere il vestito bello a qualche poco di buono, averlo pericolosamente avvicinato alla cosa pubblica, essersi girato altrove. Con la sentenza – al momento di primo grado – si conferma la “maledizione” del pupazzo. Da quando, in piazza Pia, venne messo un manichino che doveva rappresentare Sant’Antonio ma lo faceva a dir poco in modo irriverente, per non dire blasfemo, è successo di tutto a quella maggioranza. Aneddoto a parte, ciò che abbiamo letto nelle carte e quanto emerso al processo sono da brividi e la sensazione è che noi sia finita. Dispiace, sinceramente, che servano anni per arrivare a tanto ma la Dda ha dovuto colmare, non dimentichiamolo, anche numerose lacune della magistratura ordinaria di Velletri che da queste parti si è vista ben poco.

Detto ciò, mi “taccio”. Questo è stato uno spazio di denuncia, di opposizione, di racconto delle cose che non andavano, scoperte di “copia e incolla”. Ho fatto il “cane da guardia” come si conviene a chi svolge il ruolo di giornalista. Aver seguito da vicino la campagna e aver vinto, comporta una riflessione diversa ma tranquilli, il blog non chiude. Intanto si occuperà d’altro (comunicazione, salute….) senza far mancare un occhio sulle vicende cittadine.

ps, ho finalmente avuto modo di conoscere la presidente della commissione straordinaria, Antonella Scolamiero, alla quale mi sono presentato come “il giornalaio“. Abbiamo chiarito le nostre incomprensioni ed è la cosa che fanno le persone perbene. Ho ringraziato lei e gli altri componenti, confermando qualche perplessità sull’operato, riconoscendo che Anzio è una città difficilissima. Con la prefetta Scolamiero abbiamo appuntamento per un pranzo, insieme a una comune conoscente. Non mancherò.

Vero, non siete mafiosi. Ma vi siete prestati

La campagna elettorale è iniziata e sembra di sentire chi ha portato la città allo scioglimento per condizionamento della criminalità organizzata: “Non siamo mafiosi” (vero), “Non ci hanno arrestato” (altrettanto vero), “Gli atti compiuti erano regolari” (ci mancherebbe pure). Quindi? Votateci, perché lo scioglimento è stato ingiusto, c’è chi ha gettato fango sulla città e via discorrendo. Li sentite anche voi, vero?

Aggiungete che per candidato sindaco è stato scelto un generale dei carabinieri, Crescenzio Nardone, il quale in perfetta continuità con chi lo ha indicato per quel ruolo se l’è presa con i media che hanno avuto la “colpa” di raccontare, il gioco è fatto.

Ebbene sì, non siete mafiosi ma come emerso prima nelle carte dell’indagine e poi nel corso del processo a Velletri, avete prestato il fianco a chi è accusato del malaffare. Andavate, con il beneplacito guarda caso proprio di qualche carabiniere che fingeva di non aver visto, in casa di persone agli arresti domiciliari, parlavate di appalti da assegnare, di affidamenti sotto soglia, vi tenevate e zitti le minacce che arrivavano. Quando si è insediata la commissione d’accesso avete nascosto le carte, provato a rimandare grazie a un’anticorruzione che spesso si era girata altrove e a dirigenti e funzionari “allineati” la consegna dei documenti. Avete consentito, con il beneplacito di un “signorsì” buono per ogni stagione, che dopo il frettoloso ingresso in Aet si utilizzasse una struttura che doveva essere evitata. Non avete, almeno finora e francamente questo è l’aspetto che interessa meno, responsabilità penali ma politiche sì, enormi.

Perché quel “modello di amministrazione” che volevate farci credere era a uso e consumo del vostro bacino elettorale (“i nomi ce li hanno dati loro”, parlavano delle assunzioni alla Camassa) e si è pericolosamente avvicinato a chi è ancora oggi in odore di ‘ndrangheta. Prima ancora a chi era in Malasuerte e in ogni altra indagine  fatta a fatica, tanta fatica perché le forze dell’ordine locali non escono affatto bene da “Tritone”. Quando si sosteneva che se ci fosse stato un investigatore avremmo saputo molte cose in più, non era campato in aria. Non è mancata solo la politica, come emerge dalle carte e dal processo, ma più generalmente lo Stato. Sì, quello con la S maiuscola. Come se questo fosse un porto franco.

Il pubblico ministero Giovanni Musarò (nella foto) ha ricostruito nella sua lunga requisitoria, con dovizia di particolari, quanto emerso al processo, ma c’è tra di voi e tra chi accettava quel modo di fare che è andato in Tribunale quasi con aria di “sfida” e chi, invece, secondo il magistrato, sarebbe andato a raccontare bugie durante gli interrogatori alla Dda. Certo è la sua versione, aspettiamo le difese, vediamo cosa decide il Tribunale, ma non è della sentenza che importa bensì di come vi siete comportati in questi anni. Calpestando spesso, troppo spesso, la legalità delle cose quotidiane e via via il resto. Basta leggere qualche carta, suvvia!

Poi certo, c’è tanta brava gente ad Anzio. E’ vero anche questo, ma voi l’avete vilipesa e – peggio – avete offeso la memoria di ciò che è stata la città, medaglia d’oro al merito civile. E’ di questo che dovete rispondere.