Mi piace partire dall’immagine a fianco, quando in occasione dei “50 anni di baseball ad Anzio” lo facemmo premiare dal tesserato più piccolo della squadra dei Dolphins. In segno di continuità, di una storia che proseguiva. Era il 20 ottobre 2019. Elio Marcoccia, per tutti “Eroe”, è mancato oggi all’ospedale di Latina. Aveva 83 anni. Quella targa, destinata a tutti coloro che erano stati presidenti nelle squadre di baseball costituite ad Anzio, era la prima da consegnare. Il motivo? Lui, nel 1969, era stato il primo presidente della neonata società. Erano anni di fermento, il gruppo che si identificava nel “Moderno” (il cinema di piazza I maggio, era il luogo di ritrovo) aveva componenti impegnati su fronti diversi.
Lui lo era nello sport, dove avrebbe attraversato discipline ed epoche diverse. Aveva giocato a pallanuoto (e si racconta che da portiere, data la sua altezza, nella piscina troppo bassa di Velletri riuscisse a toccare a terra), era stato dirigente del baseball e poi della pallavolo. Lo definirono “Eroe” – e se ne va con questo soprannome – perché a soli 16 anni decise di arruolarsi in Aeronautica. Io lo ricordo da quando ero bambino, alle “Quattro Casette”, dietro all’Anzio “ammazzagrandi”, in quel periodo d’oro con Angelo Scagnetti presidente.
Aveva un’altra caratteristica: in pratica era l’unico a parlare fluentemente inglese e le trattative per i giocatori d’oltre oceano le conduceva lui. L’ho rivisto sempre volentieri, sul campo di baseball o in piazza ad Anzio. Prima che papà (per tutti “Zi Carlo”) se ne andasse, mi chiedeva sempre delle sue condizioni di salute. Se c’era da criticare qualcosa che avevo scritto – prima sul Granchio e poi qui – non si tirava indietro, anzi, ma era capace anche di apprezzamenti che da uno con il suo fare da burbero non ti saresti mai aspettato. L’ultimo incontro fu proprio lì, nello stadio che insieme ad altri aveva contribuito a realizzare ed è intitolato a Renato Reatini, per tutti “James”, anche lui di quel gruppo del “Moderno”. Ci ritrovammo per l’evento e per consegnare la targa, non smetteva di ringraziare, invitò me e gli altri a non mollare, perché il baseball insegna a farlo. Poi arrivò il Covid, quindi il mio trasferimento, ma in fondo meglio che io conservi quel piacevole ricordo. Oggi che lo piango, sono certo che io né quanti di noi abbiamo praticato e continuiamo a seguire questa fantastica disciplina ad Anzio, dimenticheremo il nostro “Eroe”
“Eh, ma i giornalisti italiani…” lo leggo ripetutamente, ormai, sui gruppi social che in Italia si occupano di baseball a vario titolo. È il commento all’impresa di Samuel Aldegheri, primo italiano nato e cresciuto qui a esordire come lanciatore in Major league e anche a uscire come “vincente” (foto a sinistra) da una partita. Ma lo è anche di fronte all’impresa di Ohtani, primo giocatore nella storia a battere 50 fuoricampo e rubare 50 basi nella stessa stagione. Cosa dovrebbero fare i giornalisti? Parlare di baseball, ovviamente. Perché non lo fanno? Semplice, perché in Italia non “tira” e serve qualcosa che “faccia” notizia per scriverne. Parliamo di stampa tradizionale, sportiva e non, attenzione, perché quella specializzata su internet segue puntualmente le vicende del batti e corri nostrano come lo fanno tanti media locali, nelle poche roccaforti rimaste di questo sport in certe zone del Paese. E lo fanno con fatica, garantito, come vedremo tra breve. Nella mia esperienza al Messaggero il baseball ha trovato ampio spazio sullo sport nazionale in occasione del World baseball classic del 2006 (si veda immagine sotto).
Poi quando Alex Liddi (nel 2011, cinque anni dopo, foto sotto) ha esordito in Major, alla presentazione al Coni della spedizione al Classic 2013, ora con Aldegheri, poco prima quando Mike Piazza (preceduto più dalla sua fama che dall’essere manager della Nazionale) è stato ospite in redazione. L’Italia aveva avuto spazio adeguato vincendo l’Europeo 2012, si era parlato di baseball per lo stadio nella Capitale che è una storia infinita come e peggio di quello della Roma calcio o, adesso, per il recupero del Flaminio.
Poco, direte, vero? “Eh, ma i giornalisti….” Se riflettiamo, però, si è trattato di avvenimenti eccezionali, per chi mastica un po’ di informazione di vicende che “fanno” notizia . Chiediamoci allora, perché in Italia il baseball non la “fa”? Semplice, perché non attira. Una federazione che oscilla tra i 20 e i 22.000 tesserati, ad esempio. Partite che tutto sono fuorché spettacolari e che quando va bene vedono 800 persone ad assistere agli incontri (sono i dati della serie finale tra Parma e San Marino). Normalmente, invece, alla voce “attendance” sui tabellini della Fibs appaiono meno presenti di una riunione di condominio di un palazzo di medie dimensioni. Vogliamo parlare delle strutture? Ci vogliamo bene, amiamo il baseball e passiamo su tutto ma trovate un impianto accogliente in Italia? Manco da un po’, dico la verità, ma quei pochi che conosco non lo sono affatto. Se poi aggiungiamo che la Nazionale maggiore non brilla in Europa e che quando andiamo al Classic (e facciamo bella figura) qualche benpensante storce ancora il naso perché “non ci sono gli italiani” ignorando che è una vetrina unica al mondo beh, ci facciamo male da soli. E ce lo facciamo quando si polemizza, basta avvicinarsi a un campo di gioco delle giovanili, sulle convocazioni nelle Nazionali minori o nelle selezioni regionali. Chi frequenta l’ambiente più di me, sa di cosa parlo. Chi dovrebbe occuparsi di baseball, dal punto di vista mediatico, con queste premesse? E perché? I colleghi dell’ufficio comunicazione Fibs fanno un lavoro egregio con il materiale che mette a disposizione un campionato scarso, la squadra di baseball.it della quale mi onoro di far parte riesce – con spirito volontario – a garantire una copertura degna di tale nome da oltre 25 anni. Sul resto serviva (e serve) una politica di promozione che non c’è stata (mi viene il paragone con il boom del rugby che ha pure cominciato a vincere al Sei Nazioni, dopo anni di batoste), come la crescita del movimento frutto di una visione che evidentemente è mancata. Facciamoci una domanda se dall’atletica al tennis – che non stavano meglio del baseball 10 anni fa – tutti si affermano, se nuoto e volley hanno proseguito la loro affermazione e qui per fortuna abbiamo almeno Aldegheri…. Ripetiamo la domanda: chi dovrebbe occuparsi di seguire il baseball, allora? Gli appassionati, come chi scrive e pochi altri. Poi lunga vita a Mario Salvini e al suo blog che ci regala perle quasi quotidianamente.
E guardate che non è facile seguire il campionato italiano (già capirne la formula, così per dire), provare ad approfondire, andare oltre il “copia e incolla” che vorrebbero alcune società che scrivono comunicati chilometrici. C’è tanta buona volontà e – permettete – spesso poca professionalità. Non è un caso che nel piano per realizzare in Italia le franchigie della Major league baseball – progetto dell’allora presidente Riccardo Fraccari, abortito purtroppo prima di iniziare – ci fosse una voce specifica per pagare chi si occupasse di comunicazione in ogni team. La reazione della grande maggioranza delle società italiane fu quasi di sdegno. Qualche dirigente ebbe a dire “ma allora mi stipendio io”. Chi c’era ricorderà.
Questo era ed è l’atteggiamento di chi, giustamente, ricorda i sacrifici che fa per mandare avanti le squadre ma poi si lamenta di tutto il resto. A cominciare da chi, secondo lui, dovrebbe raccontare qualcosa che non “fa” notizia, non ha lo stesso “appeal” di altre discipline, ha fatto poco o nulla per crescere in questi anni.
Infine, la “disintermediazione” ovvero l’uso dei social che consente a chi ha un proprio canale di comunicazione di bypassare i media tradizionali perché “eh ma tanto i giornalisti…“. Liberissimi, per carità, ma nessuno si lamenti se poi il nostro amato sport resta alle chiacchiere tra di noi.
“Batte Gardella, alto, lungo, sembra un fuoricampo. Fuoricampo di Gardella, tre punti e vittoria dell’Anzio!”. Abbiamo chiuso con quella registrazione di Radio Anzio il cinquantesimo anniversario di baseball ad Anzio, la storica vittoria nel derby con il Nettuno il 21 luglio del 1979. Da allora ne ho fatto la suoneria del mio cellulare e se questo è stato possibile è perché allora c’era quella radio, idea innovativa che ebbe il “Gatto Rosso”, al secolo Benedetto Salesi. Cosa fossero per l’informazione locale quegli anni lo hanno ben riassunto Ivo Iannozzi e Nino Visalli sul Granchio, appresa la scomparsa di un personaggio che a questa città, nel suo settore, ha dato molto. E ha continuato a farlo finché ha potuto anche nell’attività del Centro anziani, una delle ultime cose delle quali avevamo parlato. Avevo 10 anni, invece, ai tempi di quella radio e potevo essere solo un ascoltatore, fossero le dirette del baseball o i notiziari, ma anche le immancabili ricette di Mirella che altre signore commentavano accapigliandosi via etere sugli ingredienti da aggiungere o meno. Quella radio accompagnava Anzio ora per ora, altre ne erano sorte in quel periodo che ha segnato una svolta storica nel Paese.
Al ristorante “Gatto rosso”, più tardi per quelli della mia età, abbiamo trascorso più di qualche serata per un piatto di pasta o una birra, era aperto fino a tardi e il “rito” di andarci una volta finite le partite di baseball era rimasto negli anni. In quel palchetto con un microfono sempre aperto si sono “esibiti” in molti e lo stesso “Gatto” tra un piatto e l’altro regalava aneddoti e battute.
Un abbraccio a Leonardo e ai fratelli, mi piace immaginare che anche lassù Benedetto si sia fatto largo – come faceva tra i tavoli – con un immancabile “non spingete, scendo alla prossima”.
Era stato faticoso riportarlo sul campo di baseball. Aveva chiuso con quel mondo, un po’ nauseato, ma prima per lo “Stefano7” e poi per l’evento di 50 anni di baseball ad Anzio, c’era tornato. Perché quella era casa sua. Perché a noi tutti teneva come fossimo figli.
Oggi siamo qui a piangerlo, Angelo Scagnetti, presidente dell’Anzio baseball dei tempi d’oro, della promozione nella massima serie, degli scudetti giovanili, del campo da costruire. Siamo tutti noi che in quell’ambiente siamo cresciuti, abbiamo praticato questo fantastico sport con i figli, vediamo oggi proseguire una tradizione di famiglia con le nipoti. Angelo è stato un riferimento, dicevi Scagnetti in quegli anni e volevi dire baseball. Ma lui è stato anzitutto un grande artigiano, nella sua “bottega” – che dalla piazza, fino all’ultimo, ha sempre raggiunto a piedi – sono nate creazioni uniche. Ha avuto un ruolo importante nell’associazione di categoria, se n’è andato senza vedere realizzato il sogno di quella “Città artigiana” che aveva immaginato insieme ad altri e che aveva abbandonato dopo aver capito che c’era poco da fare. Anzio, da questo punto di vista, perde uno dei suoi artigiani migliori.
Anni fa mi raccontava delle sue opere in Belgio, per esempio, nelle boutique di diamanti, diceva che qui ci sono tante norme sulla sicurezza da rispettare “poi vai nel cuore dell’Europa dove fanno queste leggi ma trovi i fili elettrici volanti”. Conosceva il suo mestiere come pochi, era rimasto umile nonostante il presidente del Rimini baseball – Rino Zangheri – lo chiamasse “collega”, solo che lui aveva una falegnameria industriale e Angelo una bottega dove capitava di svolgere anche riunioni per parlare di baseball. Ci siamo cresciuti, tra il campo e quel posto, anche quando non era più presidente se ci incontrava chiedeva sempre come andassero le cose. Ci teneva, a tutti noi.
Gli episodi che vengono in mente sono tanti, dall’infortunio scendendo dal tabellone segnapunti dopo la prima vittoria in serie Nazionale, giocavamo allora a Nettuno, alla notte che lo svegliarono perché la prima squadra aveva vinto a Rimini e mica c’erano i telefonini, bisognava andare a casa e suonare…. Dalla riunione con l’allora sindaco Piero Marigliani che promise che il campo nuovo si sarebbe fatto – eravamo alle “4 casette” – alla prima volta in quello stadio dove raccoglievamo l’erba per far giocare la prima partita e lui montava le panchine per gli spogliatoi che sono ancora lì, dalla trasferta negli Usa nel ’90 a quando mi disse “tu alleni, ma non ti possiamo mica pagare, fai tutti i corsi e quelli sono a carico nostro, studia te che sei portato”. E l’amore per Anzio, l’arredamento del museo dello sbarco o l’idea di eseguire i lavori a Villa Sarsina “li farei pure gratis”. Mi diede anche uno “stipendio”, una volta, conservo da qualche parte la copia di un assegno di 250.000 lire che usai per l’università. Non avevamo vinto una partita quell’anno, ma volle premiare la mia costanza, la passione che ci mettevo nel seguire i ragazzini. E lo sentivi poco, però tornato dai corsi o dalle convention dovevi dirgli come era andata, fargli sapere che novità c’erano.
Non l’ho mai sentito dire una parola fuori posto, quando ho allenato e lui era dirigente non ha mai fatto mancare nulla ai ragazzi che sentiva – come era stato con noi – un po’ “suoi”. Ho visto in lui sempre una straordinaria passione. E’ quella che ha tramandato ai figli per il lavoro e per il baseball, è quella che abbiamo conosciuto noi che possiamo solo stringerci alla moglie Teresa, ai figli Pino, Laura e Andrea, a tutti i nipoti in un grande abbraccio.
Manchi già Angelo e grazie presidente, possiamo solo dirti questo.
“Vorrei tanto dirlo a mio figlio, se solo ci fosse una cabina telefonica qui…” Di Vittorio Zucconi, il giornalista morto oggi, conservo un’infinità di “ritagli“. Quella di mettere da parte articoli, prima dell’avvento del web e dei pdf, è una vecchia passione. La frase che riporto all’inizio concludeva il primo pezzo su “Repubblica” del viaggio che intraprese in Italia sulle orme dello sbarco dei “Mille”. Raccontava – come solo lui sapeva fare – delle preoccupazioni del figlio per la situazione italiana, ironizzava, spiegava che sì il museo di Marsala era chiuso ma lui aveva trovato un custode disponibile e che gli aveva fatto da guida. Del fatto che nessuno lo aveva aggredito o derubato, per esempio, ma che non poteva dirlo perché fuori al museo non c’era modo di telefonare. E’ passato qualche anno, è evidente, le cabine sono un lontano ricordo. Ma non era cambiato il suo modo di raccontare, quello che ti prendeva dalla prima all’ultima riga, quello che ti faceva “vivere” insieme ai protagonisti, ti “portava” nei luoghi – in America, soprattutto – e ti spiegava cosa stava succedendo.
Leggerlo era un piacere, ascoltarlo anche quando si collegava con Radio Capital, i suoi pezzi non erano mai banali. Mai. Fosse il reportage sulle elezioni americane, il mondiale di calcio scritto da un’angolazione assolutamente diversa o il racconto della vittoria degli Usa contro Cuba alle Olimpiadi di Sidney Un evento storico, per chi conosce un po’ di batti e corri…
Chi aveva la passione per questo lavoro e ha avuto anche la fortuna di farlo, ha sempre avuto in Vittorio Zucconi un punto di riferimento, un fine conoscitore del mestiere prima ancora che delle cose del mondo, rese al pubblico – mi ripeto – in maniera affascinante. Non mi è mai capitato di incontrarlo, per quello che vale scrivo qui la stima che avevo per lui. E conservo ancora più gelosamente quei ritagli di stampa.