La bomba a Ranucci, la finta solidarietà e il bavaglio quotidiano

L’unanime condanna per l’attentato a Sigfrido Ranucci era scontata. La solidarietà che arriva da chi quotidianamente compie, in Parlamento e fuori, atti per limitare la libertà di stampa (dalla norma Cartabia al divieto di pubblicare alcuni documenti) è nella stragrande maggioranza dei casi, finta. È un’occasione, però, per riflettere su quanto accaduto e sul bavaglio quotidiano a chi è rimasto a fare questo mestiere. Bavaglio che arriva da fuori, ma spesso trova spazio anche dentro le redazioni. Andiamo con ordine, però.

La bomba fatta esplodere l’altra notte è un atto di gravità inaudita. L’ultimo attentato del genere fu contro Maurizio Costanzo nel 1993, in via Fauro a Roma, nei pressi del teatro “Parioli”. La matrice di quella bomba era mafiosa, quella che riguarda Ranucci viene ricondotta ad ambienti ultras che in molti casi non si discostano da quelli della criminalità organizzata. Spesso con il beneplacito di certa politica, la stessa che oggi esprime solidarietà pelose. Non c’è da andare molto lontano, a Latina il legame con i clan nomadi negli anni della serie B e della mancata promozione in A è stato accertato nelle aule di giustizia.

Il punto non è questo, attenzione, bensì sottolineare come la bomba al conduttore di Report sia solo la punta – pericolosissima, certo  – dell’iceberg. Perché in Italia ci sono colleghi sotto scorta – da Federica Angeli a Lirio Abbate fino ad altri meno noti – e giornalisti quotidianamente minacciati, sbeffeggiati, insultati. Il rapporto di Ossigeno per l’informazione parla di 7.555 casi dal 2006 a oggi, per l’indice internazionale di Reporter senza frontiere l’Italia è al 49° posto su 112 Paesi, scende di tre posizioni, è dietro a nazioni come Suriname o Tonga e ottiene la performance peggiore  dell’Europa occidentale.

Ci sono stati, negli anni, 30 morti ammazzati, quelli che sempre Ossigeno ci ricorda “cercavano la verità” poi gli attentati, le intimidazioni, tutto ciò che si “vede”, mentre ogni giorno un collega riceve una querela che nella quasi totalità dei casi sarà archiviata. Peggio, riceve una richiesta di risarcimento del danno che gli fa dire “meglio lasciar perdere”. Perché certi provvedimenti arrivano a chi prova ancora, tra mille difficoltà, a fare questo mestiere. Soprattutto in realtà locali, dove non ci sono alle spalle gli studi legali messi a disposizione dagli editori, né hai l’attenzione che può avere Report. Quando a Stampa Romana mi occupavo di libertà di informare abbiamo messo a disposizione un piccolo strumento, un decalogo per difendersi da queste azioni, una piccola goccia nel mare.

Nelle ore successive all’attentato c’è una voce che sento di condividere. Quella di Francesco Storace. Le nostre idee politiche sono diverse, ma già quando da cronista lo seguivo perché era presidente della Regione, mi era simpatico. Ha detto la cosa più giusta: solidarietà a Ranucci? Cominciate a ritirare le querele contro di lui.

 Fatelo, aggiungo io, nei confronti di tutti quelli che hanno avuto solo il “torto” di raccontare cose che non siamo più abituati a leggere e diventano “scomode”. Coloro che cercano, semplicemente, di raccontare “la verità sostanziale dei fatti” secondo la legge che istituisce l’Ordine dei giornalisti. Quelli che cercano carte, verificano e poi pubblicano. Tutto questo mentre in Europa si parla di “Slapp” (azioni legali temerarie) e l’Italia resta in finestra.  

E qui veniamo all’ultimo punto, al bavaglio che nelle redazioni arriva dai vertici ovvero dagli editori  (ma è noto che in Italia hanno tutti ben altri interessi, per i quali quando serve usano i loro giornali), da qualche “capo bastone” più realista del re, da noi stessi che come dice proprio il rapporto di Reporter senza frontiere, ci autocensuriamo.

Nelle ore successive all’attentato a Ranucci “Il Sole 24 ore” è uscito in edicola nonostante lo sciopero proclamato dai redattori all’unanimità. Che ci sia un’intervista, fatta da una collaboratrice esterna, alla presidente del consiglio Giorgia Meloni, è un dettaglio. Ai tempi in cui lavoravo a Latina Oggi, Peppino Ciarrapico, da “padrone” qual era, degli scioperi se ne fregava e mandava il giornale in edicola lo stesso. Sono passati oltre 25 anni, è stato un precursore evidentemente. Vogliamo parlare dei collaboratori offesi con articoli pagati da fame? Sull’equo compenso, gli editori scappano. Anche offrire 5 euro a pezzo favorisce il bavaglio, capite da soli il perché.

A questo si aggiunge lo svilimento della professione che per inseguire le “parole di tendenza” o la “storia” ad ogni costo (trovare chi dica, ad esempio, che Tizio indossava un gilet giallo quando è evidente che il suo era rosso), perde di vista la notizia e manda a quel paese quel che resta della credibilità della professione.  Con la conseguenza che si perde di vista il lettore. Quello che Indro Montanelli ricordava essere “il padrone” e che Joseph Pulitzer, 75 anni prima,  indicava come “il committente”. È una deriva che va avanti da tempo, purtroppo, peggiorata dall’avvento dei social ai quali molti che non aprivano un quotidiano prima, si affidano come avessero la verità assoluta e poi emettono “sentenze”. Su questo Umberto Eco ha descritto perfettamente il fenomeno

È proprio per tale motivo che le inchieste di Report, ma anche quelle di Piazza Pulita, ciò che ci raccontano tanti colleghi dalla “prima linea” di redazioni (spesso locali, piccoli siti di provincia) che con coraggio e carte alla mano non si tirano indietro, deve essere preservato. Altrimenti la sacrosanta solidarietà a Sigfrido Ranucci (e ai colleghi della sua redazione) resta un mero esercizio retorico.