Ciao Marco, quanti “scazzi” e che bella amicizia…

Marco Sacchi (foto Idoctors.it)

“Spiacere è il mio piacere”, canta in “Cirano” Francesco Guccini e a lui di andare a genio a tutti importava poco. Marco Sacchi, dirigente della chirurgia dell’ospedale “Santa Maria Goretti” di Latina, ha lasciato questa terra e io sono triste. Lo conobbi nel ’99, insieme all’inseparabile amico ortopedico Gianluca Tamburella, anche lui scomparso troppo presto, appena arrivato in un ospedale che in pratica non aveva più primari. Era allo sbando e compito di Marco, come degli altri, era fare in modo che il “Goretti” tornasse ad avere una reputazione. Frequentavo, come ho fatto fino al Covid, l’ospedale per lavoro e l’impatto fu dirompente: “Sto un po’ qua e poi torno a Roma, ho girato il mondo (era andato persino in Vietnam a specializzarsi sul fegato), sistemo e ciao”. Della serie, questa la prima impressione: qua capite poco, ci penso io e poi vi saluto. Invece non se n’è più andato, portando la chirurgia di Latina, in particolare quella contro i tumori, a livelli eccellenti. E diventando il primo paladino del “Goretti”. “Vedi – mi disse una volta – quando uno ha un tumore c’è sempre qualche familiare che ha amici a Milano o Parigi, quello comincia a fare il giro del mondo, non ci considerano mica perché non siamo capaci, ma perché non vogliono bene al loro ospedale. Sono gli stessi che, invece, se hanno un infarto o arrivano per un’appendice strozzata o un ictus e vengono salvati, ci lodano”. Diciamo la verità, Latina gli stava un po’ “stretta” ma qui aveva riunito, al “D’Annunzio”, il gotha della chirurgia nazionale, invitandomi anche a moderare uno degli incontri. Nel nostro rapporto c’erano alti e bassi, lo cercavo se c’era un fatto di cronaca “Marco ma sai che è successo?” Sorrideva: “Aho, non l’hai ancora capito. Non voglio sapere che è successo ma come sta il paziente”. E ti diceva com’era andato l’intervento e quello che comunque, in qualche modo, aveva saputo. Nel rapporto fiduciario con una fonte divenuta amica. Sapeva che poteva fidarsi.

Un professionista da chiamare, anche di notte, se c’era bisogno. E che, al contrario di tanti saccenti che girano oggi nella sanità laziale e anche al “Goretti”, se non rispondeva richiamava sempre. Se avevi un dubbio su una vicenda potevi chiedere un parere (“ma non virgolettare, serve l’autorizzazione, sai che palle poi…”) oppure “Ma è vero che le sale operatorie non potete usarle perché ci sono appoggi dalla rianimazione?” “E che te l’ho detto io?”. Era il modo per andare alla fonte e avere conferma, perché se fai questo mestiere funziona così. Rapporto che qualche volta s’è incrinato, come quando riservò una stanza alla signora Finestra, moglie del sindaco, dopo un incidente e scrissi che c’erano state polemiche. “Anche a teatro c’è un posto riservato” disse al telefono mandandomi a quel paese. La prendemmo male entrambi, poi Gianluca Tamburella ci portò a mangiare una pizza da Gennaro ed era come se non ci fossimo mai bisticciati. Tenni segreto, e oggi mi perdonerà se lo racconto, che si ruppe un piede perché gli era caduto sopra il tavolo operatorio “non lo scrivere sennò è un casino”. Sai che roba, “audit” clinici, ispezioni, chi più ne ha ne metta, invece con tutto il gesso andava in sala operatoria. Perché quella era casa sua. Lì interveniva sui tumori, lì salvava vite (“ma scrivi solo se mi indagano o se qualcuno muore”, era la sua battuta preferita pur sapendo che seguivo anche altro) in quell’ospedale si arrabbiava perché l’attività programmabile (di “elezione”, appunto) era ferma. Era arrivato apposta, per “attrarre”, ridurre la mobilità passiva, restituire fiducia ai cittadini e invece ultimamente era costretto tra urgenze e tumori. “Io opero anche ad agosto – ribadiva – almeno abbiamo un po’ di margine di manovra in più”. Era arrivato per stare poco, così raccontava, è rimasto praticamente 25 anni ma ultimamente la malattia lo aveva tenuto lontano. Ci eravamo sentiti dopo il Covid, mi aveva fatto i complimenti per il trasferimento a Frosinone e la nomina a capo servizio (“mi raccomando, non fa danni eh….”), a Natale se non si poteva brindare in chirurgia, il 24, c’era sempre un suo biglietto o messaggio. “Spiacere è il mio piacere”, torno alla frase iniziale, e con i vertici Asl che dal ’99 in poi si sono succeduti è stato sempre un rapporto di amore-odio. Che battaglia, poi, quando arrivò “La Sapienza” e lui guidò i medici ospedalieri in un’assemblea al “Porfiri” per dire “no, grazie”. Pure su questo, però, non eravamo d’accordo e allora appena lui aveva una pubblicazione scientifica della sua équipe mi chiamava e diceva “l’abbiamo fatta noi, mica l’università”. Oggi, senza tema di smentita, dico che la sanità pubblica perde un pezzo importante.

Grazie per le volte che mi è servito un aiuto e ci sei stato, pazienza se la promessa di portarmi una volta in sala operatoria – a vedere come funziona – è rimasta tale. Ci siamo “scazzati” spesso, ma è quello che succede tra amici e persone che si stimano. Sono triste, caro Marco, lo ripeto. Tra noi lo “spiacere” durava poco ed è stata una bella amicizia.

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