Ciao Rosanna e scusa se quella sera non mi sono alzato in piedi

Ora sto bene”. Me lo avevi detto l’ultima volta che ci eravamo visti a Nettuno, estate 2023 credo, con un sorriso rassicurante. Il tuo, cara Rosanna, quello inconfondibile e che ti accompagnava da sempre. Mi ero alzato dal tavolo, quella sera, solo dopo aver visto tua madre, dietro di te. Mi avevi redarguito “ah, per lei sì e per me no…”. L’avevo buttata in “caciara”, come avviene quando capisco di aver commesso un errore. Sì, Rosanna, avevo sbagliato e in questo triste giorno lo riconosco ancora di più. Abbraccio forte mamma, tua sorella Giovanna, Roberto, i tuoi adorati nipoti e sono – mi viene da dire siamo, tutti quelli che ti hanno conosciuto – profondamente addolorato.

C’eri, agli albori del Granchio, quando con Giovanna, insieme ad Elvira, Ivo, Claudio e Nino ci imbarcammo in quell’avventura. Era la fine del 1991. Ti avevo già vista girare – ma posso sbagliare – per la redazione con annessa tipografia di “Prima Pagina”, dove un po’ tutti siamo passati. Volevi collaborare con quel settimanale in uscita e posso dire senza tema di smentita che lo hai fatto magistralmente, senza mai risparmiarti. Che “sudata” alla prova simulata dell’esame al Centro servizi, una domenica mattina. C’erano ancora le macchine da scrivere. E quante “chiusure”, pezzi che “ecco sta arrivando“, titoli, foto da trovare, storie…

Il mondo della comunicazione è stato il tuo, sei andata a “prendertelo” quando nacque la facoltà dove sei stata ricercatrice e dove scoprii – con gioia – che avevi anche un ruolo di rappresentanza. Mi aiutasti nel cercare di prendere la seconda laurea che rimandai (ho da qualche parte una cartella con scritto di tuo pugno “il sogno”) e mi facesti i complimenti quando la presi, cambiando leggermente registro rispetto all’idea iniziale.

Al decennale del Granchio facesti intervenire una docente di Scienze della comunicazione che venne a parlarci dell’importanza dei media locali, introducendo il concetto di “glocal”. Quando, invece, il progetto che presentasti con altri per i 20 anni del nostro giornale non venne scelto, fosti la prima a complimentarti con chi aveva vinto. E a metterti a disposizione con l’idea legata alla memoria del territorio. Perché la stampa locale raccoglie storie di vita senza eguali e lo sapevi bene. Ma oltre il giornalismo, che ti ha visto protagonista al Granchio e all’ufficio stampa del Comune di Nettuno (“sei il primo al quale telefono, dammi qualche consiglio”) sei stata importante nel volontariato e nel mondo cattolico. È vero, ad Assisi ho sempre detto che una volta sarei venuto, ora mi impegno ad andarci con il tuo ricordo.

E scusa se non l’ho fatto quella sera a Nettuno, però mi alzo in piedi adesso: davanti alla tua forza d’animo nell’affrontare la malattia, alla tua dignità, alla gratuità verso il prossimo, all’impegno civile, alla voglia di far conoscere mondi che sembravano distanti da noi, al modo di affrontare ogni avversità. Davanti al tuo indimenticabile sorriso. Ciao Rosanna!

De Masi, un anno dopo. Il ricordo e l’insegnamento che resta

È trascorso un anno e tante cose tornano alla mente. Come quella volta in cui gli dissi che ero candidato sindaco ad Anzio e chiese “ce la fai?” Risposi “difficile professore” e lui “ma se ce la fai cercami”. Andò male, però pensate: avremmo avuto lui al posto di qualche “solito noto”, buono per ogni stagione.

Domenico De Masi ci ha lasciato un anno fa. Non l’ho mai chiamato Mimmo, non c’è mai stata la confidenza che ha avuto con altri – anche del mio corso all’università – ma quando ho potuto sono sempre andato dove fosse per un evento. Di lui ripeto, orgoglioso, in ogni dove “è stato il mio professore, il relatore della mia tesi”. Ma ci pensate? Cercare la creatività in un ambiente burocratico. Quando glielo proposi, ormai più di 30 anni fa, rispose con il suo caratteristico “è bellissimo” (e sembra di sentirlo ancora), i suoi detrattori (e c’erano alla “Sapienza”, come se c’erano….) mi dissero che tanto non le leggeva le tesi. Invece potrei citare a memoria quello che disse davanti alla commissione, avendola letta eccome. C’erano i detrattori perché De Masi era avanti, la rivista dell’Associazione italiana formatori nel numero “L’eredità di un maestro” ospita un articolo di Antonella Calvaruso che lo cita come “esempio di innovazione”. Guardava oltre, era di una curiosità innata e al tempo stesso di un rigore scientifico senza pari. Ci invitava, da ultimo me la sono “rivenduta” con gli studenti che hanno seguito la mia docenza a contratto a Genova nel corso di Informazione ed editoria, a “vivere e studiare per sputtanare i millantatori di cultura”.

Quanti ne girano, oggi più di allora, caro professore.

Come ho avuto modo di scrivere sul Messaggero quando ha lasciato questo mondo, seguire le sue lezioni era qualcosa di unico, mai un rapporto subordinato docente-discente ma l’invito a ragionare, gli spunti sui quali riflettere, la ripetizione quasi ossessiva del “non so se è chiaro”. Perché se non lo era, potevi chiedere e avresti ricevuto risposta.

Quando ci siamo trovati a parlare dei suoi insegnamenti, noi di quei gruppi di studio che bene o male abbiamo mantenuto rapporti dopo l’università, su una cosa abbiamo concordato: senza le sue ricerche, assegnate a inizio anno accademico e valutate alla fine quando dovevi presentare il lavoro (quante nottate trascorse….) il nostro approccio alle professioni diverse che poi abbiamo svolto non sarebbe stato lo stesso. Lì abbiamo imparato come si fa ricerca sociale. Lì abbiamo appreso un metodo. Ignoro se abbiamo “sputtanato” qualcuno, sono certo che ci abbiamo messo il rigore necessario nell’effettuare quelle ricerche e poi nel lavoro che abbiamo svolto nella vita.

Perché – come si legge ne “L’emozione e la regola” che è un testo da consigliare ancora oggi, universalmente – può esserci chi in un gruppo creativo non ha regole se non partecipare alla riunione a una data ora di un determinato giorno e chi, invece, ha regole talmente ferree che però non gli impediscono di “creare”. Tradotto, l’approccio che ci ha dato De Masi ce lo portiamo ancora dietro in molti, ne sono certo.

Lui era andato oltre, era “oltre”: dal paradigma della società post industriale ci aveva portato fino all’ozio creativo, tra i primi aveva capito l’importanza del telelavoro (e oggi sullo smart working gli direi che non sono proprio d’accordo) del tempo libero, delle professioni che non hanno più orari ferrei – neanche in ambienti burocratici – della necessità di investire in innovazione e cultura. Intervenne a un convegno di Federlazio al Palacultura di Latina, anni fa, nella sala conferenze ovviamente stracolma. L’argomento, manco a dirlo, era la famigerata autostrada Roma-Latina che gli imprenditori vedevano (e vedono) come un toccasana. Da allora siamo passati da internet delle cose a quello delle persone, dai primi rudimentali telefoni cellulari al 5G, quella strada se e quando sarà realizzata sarà già vecchia. Lui semplicemente aveva messo in guardia su questo, dando una visione diversa. Poi certo, le merci devi trasportarle ugualmente, ma intanto certi imprenditori che continuano a piangersi addosso e chiedere provvidenze statali alla prima crisi, a innovare non ci hanno pensato.

Forse perché hanno visto sempre di traverso la Sociologia e ancora peggio quella del lavoro che De Masi ha istituzionalizzato in Italia, prima di essere anche preside di Scienze della Comunicazione. Perché chi pensa, analizza la realtà, fa ricerca sociale, indica una via alternativa, non è mai così ben accetto. Volete mettere gli ingegneri e le loro formule così precise?

E la cultura? Lui che era stato assessore a Ravello e ne è diventato cittadino onorario, aveva seguito e fatto realizzare l’Auditorium Oscar Niemeyer, fatto del festival un evento unico al mondo, ci aveva portato a comprendere che tanto del “tempo libero” può e deve essere trascorso così. Tornando all’aneddoto iniziale, quello della candidatura, non è un caso che citassi Ravello nel programma di #unaltracittà

Perché, questo è uno dei tanti insegnamenti che ci ha lasciato, devi pensare in grande. E continuare a “vivere e studiare per….” Va be’, lo sapete. Grazie ancora, professore.